Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 21


 Articolo 21

1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.
2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio paese.
3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione


Spunti di riflessione.

  • Articolo 21 – Democrazia: bene universale. Commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova

 Col diritto di elettorato attivo e passivo, che richiama anche il principio delle pari opportunità nella partecipazione alla vita politica e alla pubblica amministrazione, siamo nel cuore dei principi democratici, quelli che riguardano i modi con cui la sovranità popolare si esprime. Già, “potere di popolo”: quanto ne ha oggi, nell’era della globalizzazione, il popolo di un singolo stato? La sovranità popolare si esercita sia per legittimare i rappresentanti del popolo a fare le leggi e governare, sia per partecipare alla presa delle decisioni tra una tornata elettorale e la successiva. Perché la sovranità appartiene al popolo e non, per esempio, ad un ricco imprenditore o ad un ricco calciatore o ad una famiglia circense? La risposta ce la dà il paradigma dei diritti umani: la sovranità appartiene al popolo perché ciascuno/a dei suoi membri è titolare di dirittti innati, cioè è grembo di legge fondamentale. Ciascun membro della famiglia umana è sovrano/a pro quota sua, la famiglia umana in quanto tale è titolare in toto di sovranità nel mondo interdipendente e globalizzato. Poiché i diritti umani sono sia civili e politici sia economici, sociali e culturali – tutti universali, interdipendenti e indivisibili -, la democrazia dei diritti umani è “tutta la democrazia”: politica, economica, sociale; locale, nazionale, internazionale. Democrazia è insomma un concetto multidimensionale.

Dire diritti democratici significa dire diritti di cittadinanza quale elemento essenziale di inclusione nella città, nello stato, nell’Unione Europea, nel mondo. Tutti coloro che vivono legalmente nella città devono poter esprimere il diritto di elettorato attivo e passivo. In questa direzione va la Convenzione del Consiglio d’Europa riguardante la partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale (1992). Il Trattato sull’Unione Europea già da anni ha anticipato al riguardo, stabilendo che i cittadini dell’UE hanno il diritto di elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo e per le amministrazioni locali da esercitare nel luogo di residenza, a prescindere quindi dalla cittadinanza nazionale.

In questo momento, la pratica della democrazia portata avanti soltanto all’interno del singolo stato è in grave crisi. Questa investe anche quei paesi in cui più antica è l’esperienza della democrazia. Insistere nel mantenere la pratica democratica dentro i confini dello stato nazionale equivale ad accanimento terapeutico. Naturalmente, personalismi, strumentalizzazioni partitocratiche, assenteismo elettorale aggravano questa patologia. Lo spazio nazionale è troppo limitato.

La democrazia è essenzialmente legittimazione popolare di coloro che incarnano l’autorità di governo, partecipazione politica popolare ai processi decisionali, controllo. Cosa e quanto controllano i parlamenti nazionali (e regionali e comunali), se è vero com’è che le grandi decisioni si prendono altrove?

Ciò che è avvenuto nel mondo a partire dalla prima Guerra del Golfo (1991), mediante il tentativo di esportare la democrazia con guerre preventive e occupazioni territoriali, mina la credibilità dei valori democratici oltre che la legittimità di chi li professa.
Il valore della democrazia è certamente un bene universale, è inscindibile dalla dignità della persona. Come i diritti umani, la democrazia è una conquista. La sua diffusione nel mondo deve avvenire per ‘contagio’ virtuoso, i cui effetti saranno tanto più celeri e duraturi quanto più i paesi di antica esperienza democratica daranno prova di coerenza.

Anche per la pratica democratica nel mondo vale quanto è necessario fare per sviluppare il dialogo interculturale nella città: occorre comunicare, scambiare idee ed esperienze, educare al rispetto dei diritti umani, cooperare su un piede di parità all’interno delle Nazioni Unite e delle altre legittime istituzioni multilaterali. La cooperazione internazionale nei vari campi alimenta il terreno in cui sviluppare la ‘contaminazione’ democratica del mondo. La deregulation (economica e istituzionale: competitività selvaggia + svilimento delle Nazioni Unite) ha ostacolato, se non addirittura interrotto questo virtuoso processo.
Occorre ora rilanciare la causa della democrazia (‘tutta’ la democrazia dei diritti umani) estendendone il raggio d’azione dalla città e dal villaggio fino alle massime istituzioni internazionali. E’ l’ora della democrazia internazionale o transnazionale o cosmopolitica. Si tratta in particolare di democratizzare il sistema delle Nazioni Unite e le principali istituzioni multilaterali. All’ONU, occorre dare più spazio alle (3.500) organizzazioni non governative che vi hanno status consultivo, consentendo ai loro ‘coordinamenti’ di avanzare pareri formali. Occorre anche, finalmente, istituire l’Assemblea Parlamentare delle Nazioni Unite, in analogia, per esempio, con le Assemblee Parlamentari del Consiglio d’Europa e della OSCE.

In America Latina, nel quadro istituzionale del MERCOSUR, funziona il Parlamento latinoamericano, chiamato anche “Parlatino”. Più di recente in Africa, nel quadro dell’Unione Africana e di altri sottosistemi di cooperazione sub-continentale, è entrato in funzione il Parlamento Panafricano. Ci sono anche l’Assemblea parlamentare paritetica UE-ACP (paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico) e l’Assemblea parlamentare Euromediterranea nel quadro del Partenariato Euromediterraneo. I grandi mezzi d’informazione non ne parlano, ma siamo in presenza di interessanti sviluppi della democrazia. Naturalmente, il Parlamento Europeo, direttamente eletto dai cittadini dell’UE, è il primo e tuttora unico esempio di autentica democrazia sopranazionale.

Ora, bisogna collegare fra loro le istituzioni e le pratiche democratiche che esistono ai vari livelli territoriali, in particolare dare più visibilità internazionale ai Governi Locali, istituendo un Comitato dei Governi Locali in seno all’Organizzazione delle Nazioni Unite, in analogia col Comitato delle Regioni dell’UE e del Congresso dei Poteri Locali e Regionali del Consiglio d’Europa. Le radici territoriali della democrazia stanno nelle città, in Italia nei Comuni. Lanciando il principio di sussidiarietà e il principio di autonomia territoriale locale (self-government) nello spazio glocale del mondo e facendo partecipare i Governi Locali alla governance globale si rinvigorisce la democrazia locale (la più genuina) e allo stesso tempo si fornisce linfa vitale alle Organizzazioni internazionali.

Ma non c’è vera democrazia ‘rappresentativa’ se i cittadini non hanno possibilità di scegliere – per nome e cognome – coloro che li rappresentano. Togliere le ‘preferenze’ dalle leggi elettorali significa violare il Diritto internazionale dei diritti umani (oltre all’art. 21 della Dichiarazione universale, anche l’omologo art. 25 del Patto internazionale sui diritti civili e politici). Mandare al Parlamento Europeo personale politico da riciclare a fine carriera o per altri motivi di mercantilismo infra-partitico è controproducente non soltanto per la qualità del sistema UE, ma anche per la diffusione della democrazia nel mondo.
Ultima battuta di una riflessione necessariamente limitata.

Maggioranza e minoranza: il gioco democratico si fa sulla dialettica tra questi due poli. Eterno quesito: la maggioranza contiene la parte più sana della società (la sanior pars, come dicevano, problematizzando, i più antichi ordini religiosi)? Scegliere bene implica capacità di discernere. Quanto libera è un’opinione pubblica-corpo elettorale, bombardata da disinformazione e cattiva informazione? Non c’è alternativa al gioco aritmetico della democrazia rappresentativa, ci sono però i correttivi. Il primo di questi è una sana educazione civica con al centro i diritti umani da cui si apprende che i diritti fondamentali di coloro che appartengono alla minoranza sono perfettamente gli stessi diritti fondamentali di chi appartiene alla maggioranza. Ne discende che, stando così le cose, conviene a tutti alternarsi nell’esercizio delle responsabilità di governance. Il riferimento è al mitico turnover della cui necessità dovrebbero in particolare convincersi, per la loro personale salute e per quella della democrazia, coloro che bramano stare incollati sempiternamente alle poltrone del potere.”

  • Patto internazionale sui diritti civili e politici (tratto da ), New York 16 dicembre 1966.
    Entrata in vigore il 23 marzo 1976

Gli Stati parti del presente Patto,

Considerato che, in conformità ai principi enunciati nello Statuto delle Nazioni Unite, il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;

Riconosciuto che questi diritti derivano dalla dignità inerente alla persona umana;

Riconosciuto che, in conformità alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, l’ideale dell’essere umano libero, che goda delle libertà civili e politiche e della libertà dal timore e dalla miseria, può essere conseguito soltanto se vengono create condizioni le quali permettano ad ognuno di godere dei propri diritti civili e politici, nonché dei propri diritti economici, sociali e culturali;

Considerato che lo Statuto delle Nazioni Unite impone agli Stati l’obbligo di promuovere il rispetto e l’osservanza dei diritti e delle libertà dell’uomo;

Considerato infine che l’individuo in quanto ha dei doveri verso gli altri e verso la collettività alla quale appartiene, è tenuto a sforzarsi di promuovere e di rispettare i diritti riconosciuti nel presente Patto;

Hanno convenuto quanto segue:

{…}

Articolo 2

1. Ciascuno degli Stati parti del presente Patto si impegna a rispettare ed a garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio e siano sottoposti alla sua giurisdizione i diritti riconosciuti nel presente Patto, senza distinzione alcuna, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione.

2. Ciascuno degli Stati parti del presente Patto si impegna a compiere, in armonia con le proprie procedure costituzionali e con le disposizioni del presente Patto, i passi per l’adozione delle misure legislative o d’altro genere che possano occorrere per rendere effettivi i diritti riconosciuti nel presente Patto, qualora non vi provvedano già le misure, legislative o d’altro genere, in vigore.

3. Ciascuno degli Stati parti del presente Patto s’impegna a:

a) Garantire che qualsiasi persona, i cui diritti o libertà riconosciuti dal presente Patto siano stati violati, disponga di effettivi mezzi di ricorso, anche nel caso in cui la violazione sia stata commessa da persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali;
b) Garantire che l’autorità competente, giudiziaria, amministrativa o legislativa, od ogni altra autorità competente ai sensi dell’ordinamento giuridico dello Stato, decida in merito ai diritti del ricorrente, e sviluppare le possibilità di ricorso in sede giudiziaria;
c) Garantire che le autorità competenti diano esecuzione a qualsiasi pronuncia di accoglimento di tali ricorsi.

{…}

Articolo 25

1. Ogni cittadino ha il diritto, e deve avere la possibilità, senza alcuna delle discriminazioni menzionate all’art. 2 e senza restrizioni irragionevoli:
a) di partecipare alla direzione degli affari pubblici, personalmente o attraverso rappresentanti liberamente scelti;
b) di votare e di essere eletto, nel corso di elezioni veritiere, periodiche, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, che garantiscano la libera espressione della volontà degli elettori;
c) di accedere, in condizioni generali di eguaglianza, ai pubblici impieghi del proprio paese.

2. Tutti gli individui sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. A questo riguardo, la legge deve proibire qualsiasi discriminazione e garantire a tutti gli individui una tutela eguale ed effettiva contro ogni discriminazione, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso’ la lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione.

  • Articolo 48 – Costituzione della Repubblica Italiana:

Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età [cfr. artt. 56 , 58 , 71 c. 2 , 75 cc. 1, 3 , 138 c. 2 , XIII c.1].

Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico.

La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività. A tale fine è istituita una circoscrizione Estero per l’elezione delle Camere, alla quale sono assegnati seggi nel numero stabilito da norma costituzionale e secondo criteri determinati dalla legge.

Il diritto di voto non può essere limitato se non per incapacità civile o per effetto di sentenza penale irrevocabile o nei casi di indegnità morale indicati dalla legge [cfr. artt. XII c. 2 , XIII c. 1].

  • Piero Calamandrei: Discorso sulla Costituzione, da Lo Stato siamo noi. Tornare a credere nello Stato perché lo Stato siamo noi. Tornare a credere nella politica per una nuova etica della politica. Tornare a credere nell’impegno perché “solo con la partecipazione collettiva e solidale alla vita politica un popolo può tornare padrone di sé.

Il discorso qui riprodotto fu pronunciato da Piero Calamandrei nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria di Milano il 26 gennaio 1955 in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi per illustrare in modo accessibile a tutti i principi morali e giuridici che stanno a fondamento della nostra vita associativa.

***

L’art.34 dice: “i capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.” E se non hanno mezzi? Allora nella nostra Costituzione c’è un articolo, che è il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo; non impegnativo per noi che siamo al desinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

E’ compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza con il proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica.

Una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della Società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la Società. E allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinnanzi!

E’ stato detto giustamente che le Costituzioni sono delle polemiche, che negli articoli delle Costituzioni, c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica di solito è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime. Se voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai diritti di libertà voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate, riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute: quindi polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino, contro il passato.

Ma c’è una parte della nostra Costituzione che è una polemica contro il presente, contro la Società presente. Perché quando l’articolo 3 vi dice “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” riconosce, con questo, che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo, contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare, attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una Costituzione immobile, che abbia fissato, un punto fermo.

E’ una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire, non voglio dire rivoluzionaria, perché rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente; ma è una Costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa Società, in cui può accadere che, anche quando ci sono le libertà giuridiche e politiche, siano rese inutili, dalle disuguaglianze economiche e dalla impossibilità, per molti cittadini, di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch’essa contribuire al progresso della Società. Quindi polemica contro il presente, in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasformare questa situazione presente.

Però vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.

Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è -non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani- una malattia dei giovani. ”La politica è una brutta cosa”, “che me ne importa della politica”: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina,, che qualcheduno di voi conoscerà, d quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava: E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: “Ma siamo in pericolo?”, e questo dice: “Se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda”. Allora lui corre nella stiva svegliare il compagno e dice: “Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, il bastimento fra mezz’ora affonda!”. Quello dice: “Che me ne importa, non è mica mio!”.

Questo è l’indifferentisno alla politica. È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi alla politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante cose belle da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.

La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. E’ la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità di uomo.

Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946, questo popolo che da venticinque anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori- il caos, la guerra civile, le lotte le guerre, gli incendi. Ricordo – io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui – queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese.

Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto- questa è una delle gioie della vita- rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo. Ora vedete- io ho poco altro da dirvi-, in questa costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato.

Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane. Quando io leggo nell’art. 2, ”l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, o quando leggo, nell’art. 11, “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle alte patrie, dico: ma questo è Mazzini; o quando io leggo, nell’art. 8, “tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour; quando io leggo, nell’art. 5, “la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo; o quando, nell’art. 52, io leggo, a proposito delle forze armate,”l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica” esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo, all’art. 27, “non è ammessa la pena di morte”, ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria.

Grandi voci lontane, grandi nomi lontani. Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti.

Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione.

  • Dieci punti di Gustavo Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi, Torino 2007, pagg. 15-38

 Le indicazioni che seguono, esposte come in un decalogo, sono una semplice proposta di riflessione su contenuti minimi necessari dell’ethos democratico. Non c’è nulla di nuovo, ma vederli schierati così, l’uno in fila all’altro, fa una certa impressione. Anzi, crea un certo turbamento in quanto si faccia quel che è naturale fare: il raffronto tra ciò che l’ideale richiede che debba essere e ciò che la pratica dimostra essere.

1. La fede in qualcosa.

La democrazia è relativistica, non assolutistica. Essa, come istituzione d’insieme e come potere che da essa promana, non ha fedi o valori assoluti da difendere, a eccezione di quelli sui quali essa stessa si basa: nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica. La democrazia deve cioè credere in se stessa e non lasciar correre sulle questioni di principio, quelle che riguardano il rispetto dell’uguale dignità di tutti gli esseri umani e dei diritti che ne conseguono e il rispetto dell’uguale partecipazione alla vita politica e delle procedure relative. Ma al di là di questo nucleo, essa è relativistica nel senso preciso della parola, cioè nel senso che i fini e i valori sono da considerare relativi a coloro che li propugnano e, nella loro varietà, tutti ugualmente legittimi. Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma, sono incompatibili. La verità assoluta e il dogma valgono non nelle società democratiche, ma in quelle autocratiche.

Dal punto di vista del singolo, invece, relativismo significa che ‘tutto è relativo’, che una cosa vale l’altra, cioè che nulla ha un valore. In questo senso – insisto, dal punto di vista dei singoli – relativismo equivale a nichilismo o scetticismo. Ora, mentre il relativismo dell’insieme è condizione necessaria della democrazia perché consente a tutti di far valere i propri valori, nichilismo o scetticismo diffusi nella società ne rappresentano una minaccia. Se non si ha fede in nulla, perché difendere una forma di governo rispetto a un’altra; in particolare, una forma di governo come la democrazia che presuppone l’aspirazione dei singoli a promuovere e affermare le proprie posizioni e convinzioni ? Per chi non crede in nulla, democrazia e autocrazia pari sono. Varranno pure e semplici considerazioni di convenienza personale.

Nel tempo in cui viviamo, il relativismo e il pluralismo che ne deriva sono oggetto di aspra polemica. Vi si vede apatia morale, difetto di identità e di senso di appartenenza; alla fine, debolezza e arrendevolezza di fronte al timore di minacce della più diversa natura, come lo strapotere della scienza che invade ambiti della vita – la procreazione, la morte, i legami familiari, ecc. – finora dominio delle leggi di natura o dei precetti della religione; oppure, l’incombenza di etnie e culture non solo diverse ma anche ostili alla nostra. L’ethos relativistico diffuso nella società – si dice – assume come unica e ultima misura del bene e del male il singolo e le sue pulsioni edonistiche individuali. Ma questi discorsi si basano su un equivoco e nascondono un inganno. Ciò che non si comprende è perché queste preoccupazioni e queste critiche – che le si condivida o no, non è questo il problema – debbano essere il privilegio (negativo) della democrazia. Esse possono valere per qualunque altro regime politico, anche per il regime dei manganelli, sotto il quale possono mettere radici, ed è probabile che le mettano, il più diffuso disimpegno da ogni impegno per principi e valori e il più cinico opportunismo individualistico. Non si comprende, insomma, il nesso. A meno che la critica della democrazia relativistica in nome di ‘valori forti’ non comporti l’auspicio dell’imposizione autoritaria di un’etica pubblica sulle coscienze individuali. In tal caso, il senso della critica sarebbe chiarissimo. Non sarebbe in questione la degenerazione della democrazia, ma la democrazia, semplicemente.

In breve, la critica alla democrazia per i suoi caratteri relativistici, non è una critica a una forma degenerata di democrazia ma è, tout court, il rigetto della democrazia. Il relativismo, nel senso della scepsi e dell’indifferenza verso la qualità dei legami sociali, con il corrispondente emergere dell’egoismo individualistico, dell’edonismo, del mero utilitarismo, ecc., è certo un pericolo mortale ma esso sta, come un tarlo sempre allerta, annidato nella società. La democrazia, rispetto a ciò, è il meno colpevole di tutti i regimi politici.

Rallegriamoci dunque se la democrazia, come insieme, è relativistica e non sposa fini e valori assoluti. Solo così la società può esprimere liberamente e responsabilmente i propri. In questo sta non il difetto ma l’orgoglio dell’Occidente democratico. Chi se ne duole e ritiene che, invece di rappresentare valori diffusi e plurimi, la democrazia come tale debba avere la sua verità indiscutibile, all’occorrenza da imporre ai dissenzienti anche con la forza o con mezzi fraudolenti, contraddice la democrazia stessa[1]. Non si può volere la de-mocrazia e al contempo irretirla in dogmi. Impegniamoci, però, in ogni luogo della società, per scuotere l’apatia, promuovere ideali, programmi e, perché no, utopie collettive. Tutto ciò non è affatto un pericolo ma, al contrario, è la linfa, la condizione necessaria della vita democratica.

2 . La cura delle personalità individuali.

La democrazia è fondata sugli individui, non sulla massa. Come Tocqueville aveva antiveduto studiando la società americana del primo Ottocento, la massifi-cazione della società tramite l’uguaglianza e la sperso-nalizzazione dei suoi membri è un pericolo mortale per la democrazia, aprendo la strada alla tirannide (della maggioranza): «Credo sia più facile stabilire un governo assoluto e dispotico in un popolo dove le condizio-ni sono eguali che in un altro, e penso che se un go-verno del genere fosse stabilito in un simile popolo, non solo vi opprimerebbe gli uomini, ma alla lunga sottrarrebbe a ciascuno di loro parecchi dei principali attri-buti dell’umanità. Il dispotismo mi sembra, dunque, particolarmente da temere nelle età democratiche»[2].

Su questo punto esiste un’amplissima letteratura, di impostazione per lo più non democratica ma, più spesso, basata su concezioni della politica come opera di minoranze attive (le élite) che si impongono su maggioranze passive. Bastano i nomi di Vilfredo Pareto[3], Gaetano Mosca[4]o José Ortega y Gasset[5]. Costoro ritenevano che proprio la democrazia, proclamando un’uguaglianza media e volgare in cui i valori personali sarebbero scomparsi, avrebbe rapidamente annullato gli individui e la loro libertà nella massa informe. E la massa informe, dove tutti sono uguali, non ha bisogno di democrazia ma si può accontentare di identificarsi in qualche demagogo che ne interpreta direttamente gli umori istintivi, senza bisogno di procedure democratiche di partecipazione politica. I regimi totalitari del secolo scorso sono la riprova di entrambe queste affermazioni: una democrazia senza qualità individuali apre la strada ai demagoghi; i regimi totalitari, a loro volta, hanno bisogno, per così dire, di uomini-massa, non di uomini-individui[6].

Per questo, una democrazia che vuole preservarsi dalla degenerazione demagogica deve curare nel massimo grado l’originalità di ciascuno dei suoi membri e combattere la passiva adesione alle mode. L’originalità che non deve essere concepita come stramberia, amore estetizzante della stravaganza ma, etimologicamente, come seria capacità di dare inizio, origine a un progetto, a un rinnovamento che produce vita nuova e combatte la passiva e animalesca ripetitività. Ciò che consente alla democrazia di essere un regime non pianificato, non de-terministico, cioè determinato da una necessità che sta fuori, o alle spalle degli esseri umani, come la legge della storia o una ideologia qualsiasi che si impossessa degli uomini e li trasforma in suoi automi[7] è, per l’appunto, la loro originalità. È questo ciò che fa della vita umana non una semplice derivazione di conseguenze scontate, già contenute in un nucleo iniziale (una ideologia, una rivelazione, una missione storica, ecc.) che non ha bisogno se non di fedeli esecutori.

Dobbiamo vedere con preoccupazione il procedere delle nostre società verso l’omologazione, un fenomeno che riguarda molti livelli dell’esistenza, dai consu-mi opportunamente detti “di massa”, alla cultura anch’essa “di massa”, ai divertimenti “di massa”. Chi non si adegua, passa nel migliore dei casi per un “originale”; nel peggiore per uno “spostato”, da evitare, emarginare, bandire dal gruppo, tanto più in quanto, con la sua stessa esistenza, solleva dubbi e interrogativi sul pigro conformismo della maggioranza. Non saprei fare paragoni col passato. Una certa tendenza al pessimismo indurrebbe a credere che oggi sia peggio di prima, che l’omologazione, l’appiattimento siano progrediti di molto, in conseguenza dell’applicazione delle tecniche della comunicazione “di massa” ai modi di pensare e agli stili di vita di tutti noi. Non è questa certo la prima volta che si invocano proprio dalla scuola gli antidoti necessari a preservare l’originalità delle persone. Alimentando, invece di reprimere, i caratteri, le inclinazioni, le capacità e le vocazioni personali delle giovani vite con le quali la scuola entra in rapporto, essa contribuisce a difendere la democrazia; e, in quanto l’alimento sia volto al miglioramento delle persone, la democrazia, da regime della massa senza valore, tenderà a diventare regime – se è consentito il paradosso – aristocratico, nel senso del greco aristéuein (agire per diventare migliore).

3. Lo spirito del dialogo.

La democrazia è discussione, ragionare insieme. È, per ricorrere a un’espressione socratica, filologia non misologia[8]. Chi, come coloro che si ritengono superiori agli altri, odia i discorsi e il confronto delle idee alla persuasione preferisce la sopraffazione. Benito Mussolini denigrava i “ludi cartacei” che si celebrano in Parlamento; lo scrittore reazionario di metà Ottocento Juan Donoso Cortés – altro esempio famoso – nel suo Saggio sul cattolicesimo, il liberalismo e il socialismo[9] parlava spregiativamente della democrazia come della forma di governodiscutidora, propugnando non il governo del popolo ma la teocrazia, il governo di Dio e dei suoi rappresentanti con i quali c’è evidentemente poco da discutere. Invece, maestro insuperabile dell’arte del dialogo, cioè della filologia, è certamente Socrate, a cui si deve la denuncia di due opposti pericoli. Vi sono – dice – «persone affatto incolte», che «amano spuntarla a ogni costo», anche a costo di persistere nell’errore e di trascinare altri con sé. Vi sono poi però anche coloro che «passano il tempo nel disputare il pro e il contro, e finiscono per credersi divenuti i più sapienti di tutti per aver compreso essi soli che, sia nelle cose sia nei ragionamenti, non c’è nulla di sano o di saldo, ma tutto […] va su e giù, senza rimanere fermo in nessun punto neppure un istante». Dobbiamo guardarci dall’uno e dall’altro pericolo, l’uno speculare all’altro, e non lasciarci penetrare nell’animo né la tentazione della nostra verità acquisita una volta per tutte, né il sospetto che nel ragionare non vi sia nulla di integro.

Affinché sia preservata l’integrità del ragionare, deve essere prima di tutto rispettata la verità dei fatti, che è la base di ogni azione orientata a intendersi onestamente. Sono dittature ideologiche i regimi che disprezzano i fatti, li travisano o addirittura li creano o li ricreano ad hoc, attraverso quelli che George Orwell, l’autore della Fattoria degli animali, ha descritto, nel romanzo 1984, come i «Ministeri della verità» capaci di far sì, attraverso propaganda e bombardamento dei cervelli, che la guerra diventi pace, la libertà schiavitù, l’ignoranza forza[10]. Sono regimi corruttori delle coscienze “fino al midollo”, quelli che trattano i fatti come opinioni e instaurano un relativismo nichilistico applicato non alle opinioni ma ai fatti, quelli in cui la verità è messa sullo stesso piano della menzogna, il giusto su quello dell’ingiusto, il bene su quello del male; quelli in cui la «realtà non è più la somma totale di fatti duri e inevitabili, bensì un agglomerato di eventi e parole in costante mutamento [su e giù, per l’appunto], nel quale oggi può essere vero ciò che domani è già falso» secondo l’interesse al momento prevalente[11]. Ond’è che la menzogna intenzionale — strumento ordinario della vita pubblica — dovrebbe trattarsi come crimine maggiore contro la democrazia e i mentitori dovrebbero considerarsi non già come abili, e quindi perfino ammirevoli e fors’anche simpaticamente spregiudicati uomini politici, ma come corruttori della politica.

Né intestardirsi, dunque, né lasciar correre, secondo l’insegnamento socratico. Il quale ci indica anche la virtù massima di chi ama il dialogo: rallegrarsi di essere scoperto in errore. Chi, al termine, è ancora sulle sue stesse iniziali posizioni, infatti, ne esce com’era prima; ma chi è stato indotto a correggersi ne esce migliorato, alleggerito dell’errore. Se di solito, invece, reagiamo al contrario, considerando una sconfitta, addirittura un’umiliazione, l’essere colti in errore, se quella virtù non è dunque affatto in onore, lo spirito del dialogo è remoto e ci lasciamo dominare da orgoglio, vanità, protervia, partito preso, tutte cose che non hanno a che fare con l’etica della democrazia: un sistema di vita in cui chi la pensa diversamente da noi non ha da essere semplicemente sopportato ma dovrebbe essere altamente apprezzato e onorato.

Ma non si tratta soltanto di rispetto o apprezzamento degli altri. Il dialogo è anche nell’interesse di ciascuno per se stesso. È stato detto che «nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua piena realtà tutto ciò che è obiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se egli vuole vedere ed esperire il mondo così com’è ‘realmente’, può farlo solo considerandolo una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive. Soltanto nella libertà di dialogare il mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni lato»[12].

4. Lo spirito dell’uguaglianza.

La democrazia è basata sull’uguaglianza; è insidiata mortalmente dal privilegio. L’uguaglianza non è l’omologazione, la massificazione di cui si è or ora parlato. Questa uguaglianza come omologazione è una condizione sociale e culturale, che deve essere combattuta dai singoli, affermando il proprio diritto all’originalità rispetto alla massa. L’uguaglianza come il contrario del privilegio, di cui parliamo qui, è essenzialmente isonomia – «la più dolce delle parole», come la definisce Otane, nel celeberrimo discorso sulle forme di governo, secondo la già ricordata narrazione di Erodoto[13] l’uguaglianza che deriva da leggi valide per tutti affermatasi, in Grecia, all’inizio del secolo glorioso della democrazia ateniese. Isonomia e democrazia – basta pensarci su un momento – sono le due facce della stessa medaglia. Senza leggi uguali – pensiamo alle leggi ad personam, fatte dai potenti per favorire se medesimi e i propri accoliti – la società si divide in caste, tra chi è sotto la legge che vale per le persone comuni e chi ne è sopra e vive così felice della legge fatta per le persone speciali. La vita collettiva, alla quale tutti in democrazia sono chiamati, si trasforma nel dominio di un’oligarchia di privilegiati e la legge, da regola in cui tutti si devono poter riconoscere, diventa lo specchio in cui si riflette una società sbilenca.

Il privilegio ha poi conseguenze nefaste nello spirito pubblico. Una società che si divide per privilegi dispone i suoi membri come su una scala: chi sta su e chi sta giù; chi sta su guarda dall’alto al basso chi sta giù. Ciò avvelena i rapporti, generando disprezzo sociale da parte dei primi nei confronti dei secondi. In questi ultimi, poi, produce arrivismo e genera una rincorsa insensata, tanto più accanita e spietata quanto più vuota di contenuto. Se gli accessi ai livelli sociali superiori sono aperti, la società è sottoposta allo stress del carrierismo diffuso, con ben noti prezzi da pagare: disagio, frustrazioni, perfino suicidi, in caso di fallimento; se gli accessi si chiudono, per insufficienza di mobilità, si ingenera invidia sociale, un male terribile che, accumulato, produce instabilità nella psiche degli individui, tensione collettiva e distruzione. Il travolgimento dell’Antico Regime a opera della rivoluzione francese è spiegato attendibilmente, sul piano della psicologia sociale, tra l’altro, anche con il livello intollerabile raggiunto dalla tensione disprezzo-invidia, generatrice di un genere di conflitto cui non si può ovviare con mediazioni o accordi.

Tanto sono evidenti, non c’è bisogno di molti esempi per illustrare la caduta del sentimento dell’uguaglianza nei tempi presenti. Anzi, non si tratta solo di una caduta, ma di un vero e proprio rovesciamento: l’ammirazione ha preso il posto del disprezzo nei confronti dei privilegiati, esempi da imitare, nel loro modo di pensare, nel loro stile di vita, nei loro valori. C’è un luogo, oggi, che meglio di tutti esprime lo spirito del nostro tempo: lo stadio, vero luogo di culto delle nostre società. Si faccia attenzione alla stratificazione del pubblico. La tribuna ufficialmente e volgarmente denominata dei vip, dove siedono i prominenti della società (politici, capitani d’industria, finanzieri, uomini e donne di spettacolo, ecc.), è oggetto di invidia da parte di centinaia di migliaia di persone che, invece di avvertire l’oscenità della situazione, farebbero di tutto per esservi ammesse e farsi vedere in quella compagnia, magari anche solo come clientes.

5. L’apertura verso chi porta identità diverse.

La democrazia esige che le identità particolari siano ininfluenti rispetto alla pari partecipazione alla vita sociale; esige in breve di essere potenzialmente multi-identitaria. Non è stato così, in passato; anzi, non è pienamente così neppure ora. Oggi, il problema della coesistenza di identità plurime è di natura etnico-culturale, comprendente l’aspetto religioso; storicamente, in Europa, è stato essenzialmente cultural-religioso, dipendente dalla separazione delle Chiese riformate dalla Chiesa di Roma, una separazione generatrice di guerre civili di religione. In nome dell’ordine interno, vi si oppose il non meno terribile e cruento principio cuius regio eius et religio, proclamato col Trattato di Augsburg (1555) tra l’imperatore del Sacro romano impero Carlo V e i principi luterani tedeschi coalizzati. L’identità di religione tra tutti gli abitanti delle medesime terre, conformemente alla fede professata dal principe, diede sì la possibilità di migrazioni da uno stato all’altro, per difendere, insieme alla vita, la fede (il cosiddetto beneficium emigrationis), ma permise la persecuzione religiosa all’interno di ciascuno stato.

L’idea della tolleranza nasce come reazione a questo stato di fatto.

La sua affermazione riaprì la strada a un certo pluralismo. Ma la democrazia non può accontentarsi della tolleranza. Questa è propria, infatti, di un contesto che non è il nostro, quando una identità maggioritaria si astiene, per determinazione unilaterale, dal soffocare quelle minoritarie, ‘tollerandole’ appunto nel seno della propria società senza riconoscere necessariamente uguaglianza. È l’assolutismo, dunque, che quando si ammorbidisce può parlare il linguaggio della tolleranza. Non la democrazia, alla quale si addice invece il linguaggio dei diritti di cittadinanza, ugualmente riconosciuti a tutti.

Onde il concetto stesso di identità, se può e deve valere ai fini del riconoscimento e della protezione delle diverse culture, deve considerarsi completamente non rilevante con riguardo alla partecipazione alla vita pubblica e al riconoscimento dei diritti relativi.

Oggi un’insidia alla democrazia viene da un nuovo richiamo all’unione tra potere civile e religione. Il principio cuius regio illius et religio, che univa vita religiosa e vita civile sotto la potenza dello stato, si vuole da taluno rinnovare in un nuovo, ambiguo intreccio di potere civile e potere religioso. Dopo secoli di difficili sperimentazioni della distinzione tra affari di stato e affari di religione, l’autonomia dell’uno dall’altra, che – sola – consente la convivenza di tutti in uguaglianza di diritti, è oggi ancora una volta esposta a rischio. È perfettamente visibile il tentativo di ciascuna delle due parti di ottenere dall’altra un supplemento di legittimità e di potere. La novità non sta nelle posizioni della Chiesa ma nell’apparizione (anzi, nella riapparizione) della figura ben nota degli opportunisti della religione, ‘atei-clericali’ o come altrimenti si vogliano chiamare coloro che, per rafforzare lo stato e promuovere se stessi verso i vertici dello stato, sono disposti ad appoggiarsi gregariamente alla Chiesa e alla sua autorità morale. Il prodotto è la “politica in nome di Dio” che vediamo diffondersi pericolosamente nelle e tra le nostre società, con tutto il suopotenziale di intolleranza e violenza. La formula che è stata suggerita (da Stefano Levi della Torre[14]) è il rovesciamento del cuius regio illius et religio: oggi si starebbe correndo il rischio di un cuius religio illius et regio, espressione di una nuova “alleanza tra trono e altare”, potenzialmente anche più intollerante e aggressiva della prima. L’esito potrebbe essere il rovesciamento di Augsburg: non più chiese di stato, ma stati di chiese, riedizioni moderne della teocrazia antica.

Nella scuola, i problemi delle società multi-identitarie, o multi-culturali come più spesso si dice, sono particolarmente vivi con riguardo ai simboli, siano essi il velo islamico o il crocifisso cristiano. La disputa su questo tema, come è chiaro, è ben più importante e profonda di una controversia su abbigliamenti o arredi di aule scolastiche. La sua importanza per la democrazia dovrebbe essere evidente a chiunque. La propensione della democrazia ad accogliere identità diverse sul piano di parità significa due cose: di quei simboli non si può impedire l’esposizione a nessuno in particolare, ma nessuno, a sua volta, può usarli come aggressione o offesa nei confronti di altre identità. Se e quando prevarrà lo spirito di reciproco rispetto e apertura, un problema che oggi ci appare tanto acuto e quasi irrisolvibile, perché alle identità si associa un’idea di esclusività e aggressione, si supererà da solo, senza bisogno di leggi o di sentenze. La democrazia, in quella — per così dire — “società di comunità” che ci avviamo a essere, ha possibilità di sopravvivere alla sfida del cosiddetto pluriculturalismo solo se si realizzerà questa condizione dello spirito pubblico.

6. La diffidenza verso le decisioni irrimediabili.

La democrazia implica la reversibilità di ogni decisione (sempre esclusa quella sulla democrazia medesima). Le soluzioni definitive ai problemi, quelle che non consentono ripensamenti o aggiustamenti, sono proprie dei regimi della giustizia e verità, uniche e ferme. Dove i valori e le identità, invece, sono plurimi, le decisioni imposte nel segno di una verità che non ammette replica sono preannunci di conflitti, se non addirittura di guerre civili. Vorrebbero essere definitive; ma non si sa quel che si fa. La democrazia invece è, come detto, relativistica perché perennemente dialogica e aperta; essa — ripeto ancora una volta, come insieme — non ha e non può volere verità né a priori, come espressione, per esempio, di un mandato divino, né a posteriori, come conseguenza di una decisione popolare, per quanto largamente o addirittura unanimemente voluta. La strada per dire: ‘ci siamo sbagliati’ deve restare sempre aperta.

Non è privo di significato che le democrazie, al contrario delle autocrazie, siano prevalentemente orientate contro la pena di morte e contro la guerra, due decisioni dagli effetti irreversibili di cui non ci si potrà poi pentire se non, ipocritamente, solo a parole. Le autocrazie, invece, non hanno scrupoli in proposito. Esse possono essere fondate sulla guerra e sul boia, anzi: sulla divinizzazione dell’una e dell’altro, ond’è che l’elogio delle milizie si accompagna normalmente all’elogio del boia, come naturale prosecuzione e deduzione dal

l’idea di verità assoluta che fonda la legittimità dei regimi autocratici. Vedeva chiaro in proposito, come sempre del resto, Joseph de Maistre[15].

Quanto questo orientamento contrario alle decisioni irreversibili o che comportano conseguenze irreversibili per singoli individui o per l’umanità intera possa influire sulla discussione di questioni oggi divenute cruciali, come quelle riguardanti le grandi scelte di bioetica, i limiti della tecnologia applicata ai fatti della vita, della morte e della salute o il rapporto tra l’essere umano e la natura — turi campi esposti al rischio di scelte irreversibili — ognuno di noi veda da sé.

7. L’atteggiamento sperimentale.

La democrazia è orientata da principi, ma deve imparare quotidianamente anche dalle conseguenze delle proprie azioni. E perfino scontata la citazione dell’etica weberiana della responsabilità, accanto all’etica della convinzione[16]. La politica democratica come pratica sempre rivedibile composta un’attenzione particolare alle conseguenze dell’agire. Non è così per i regimi basati sulla verità del bene e del male. La verità assoluta, infatti, non teme le conseguenze. Fiat veritas, fiat iustitia ,pereat mundus. Lo spirito democratico è invece quello in cui convinzioni della coscienza e conseguenze dell’agire formano un circolo sempre aperto nel quale si determinano le norme dei soggetti responsabili.

Quale scuola di democrazia è più efficace della partecipazione a un’opera comune, alla quale tutti siano chiamati a cooperare? Ci si rende conto delle difficoltà esterne, con le quali si devono fare i conti: vincoli normativi, collisione con diritti e interessi altrui, risorse limitate; e dei vincoli interni: la formazione di una volontà comune, che richiede di andare al passo e non al galoppo, la suddivisione dei compiti operativi, secondo competenze e non preferenze individuali, il controllo dell’amor proprio e degli istinti di sopraffazione, ecc. La tensione tra la teoria e la pratica è esperienza da cui si apprende molto. Essa soprattutto forma il carattere, rende accettabili le sconfitte e promuove nuove energie. Alla fine, c’è la soddisfazione per l’opera compiuta, nella consapevolezza che in astratto, in assenza di limiti, si sarebbe fatto di più e, forse, meglio. Ma solo in teoria poiché i condizionamenti pratici creano il terreno in cui ogni azione umana è necessariamente immersa ed è così che è resa concretamente possibile.

Sotto questo aspetto, l’istituzione scolastica del nostro Paese è particolarmente carente, orientata com’è all’astrattezza dell’apprendimento che genera distacco e disillusione verso il mondo, produce rinuncia e disprezzo e invita all’individualismo chiuso in se stesso.

8. Coscienza di maggioranza e coscienza di minoranza.

In democrazia, nessuna deliberazione ha a che vedere con la ragione o il torto, la verità o l’errore. Non esiste nessuna ragione per sostenere, in generale, che i più vedano meglio, siano più vicini alla verità dei meno; o, secondo l’espressione di Otane nel dialogo narrato da Erodoto, letteralmente «nel molto si trova ogni cosa».

C’è, invero, un argomento classico a favore dei più, un argomento che risale ad Aristotele[17]:

«può darsi in effetto che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a loro, non presi singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e come quando si raccolgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi; così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza».

Questa idea, rappresentata con una immagine antropomorfa, funziona tuttavia a condizione non solo che in ciascuno di noi ci sia una qualche porzione di diversa virtù, da sommare a quelle altre porzioni che sono presso i propri simili, ma, soprattutto a condizione che tutti siano disposti a riconoscere queste diversità come parti di una ricchezza comune, da valorizzare per il bene di tutti. Questa sarebbe la democrazia delle virtù concordi. Un’utopia, o almeno una semplice eventualità: ‘può darsi, in effetti…’ Guardiamoci attorno! Solo chi professa le nostre idee riteniamo nel giusto; gli altri, li consideriamo nel torto. Le virtù sono oggetto di valutazioni di parte e tendono a sopraffarsi.

Poiché è così, la massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Essa solo apparentemente è democratica, poiché nega la libertà di chi è minoranza, la cui opinione, per opposizione, potrebbe dirsi vox diaboli e dunque meritevole di essere schiacciata per non risollevarsi più. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti. Vox populi, vox hominum, invece; voce di esseri limitati, sempre fallibili e per lo più in contrasto tra di loro ma predisposti alla continua ricerca delle migliori possibili soluzioni ai problemi del loro vivere comune. Il motore di questo movimento, che è l’essenza della politica democratica, sta di solito non nella maggioranza, ma nelle minoranze che fanno loro il motto «non seguire la maggioranza nel compiere il male» e tengono così fede alla coerenza con se medesime. Esse mantengono vive ragioni che rappresentano un patrimonio collettivo di idee, programmi e valori al quale poter attingere in futuro. Non si considera, sotto questo punto di vista, la pericolosità per la democrazia, di quell’atteggiamento per il quale la lingua italiana conosce parole ad hoc, come trasformismo e voltagabbana: l’atteggiamento di coloro che, detestando essere minoranza, per questo sono pronti a tradire i loro convincimenti – sempre che ne abbiano -per assecondare e blandire i vincitori del momento.

La ragione d’essere e di operare delle minoranze è la sfida alla bontà della deliberazione presa, nell’aspettativa di prenderne un’altra diversa. Per questo, ogni deliberazione in cui una maggioranza sopravanza numericamente una minoranza non è una vittoria della prima e una sconfitta della seconda. È invece una provvisoria prevalenza che assegna un duplice onere: alla maggioranza di dimostrare poi, nel tempo a venire, la validità della sua decisione; alla minoranza, di insistere per far valere ragioni migliori. Ond’è che nessuna votazione, in democrazia (salvo quelle riguardanti le regole costitutive o costituzionali della democrazia stessa) chiude definitivamente una partita. Entrambe attendono e, al tempo stesso, precostituiscono il terreno per la sfida di ritorno tra le buone ragioni che possano essere accampate.

9. L’atteggiamento altruistico.

La democrazia è la forma di vita comune di esseri umani solidali tra loro. Ciò è espressione dell’idea di virtù repubblicana di Montesquieu, di quell’amore per la cosa pubblica che presuppone disponibilità a mettere in comune qualcosa di sé, anzi il meglio di sé: tempo, capacità, risorse materiali. Tutto ciò costituisce un patrimonio di tutti, res publica per l’appunto, senza il quale non vi potrebbe essere né repubblica né quella forma di repubblica che è democrazia; non vi potrebbe cioè essere gestione da parte di tutti di qualcosa che, non essendo di nessuno in particolare, può essere di tutti in generale. Altrimenti, vi sarebbe solo una somma di res particulares, rimesse alla cura, allo sfruttamento e al godimento dei singoli possessori.

Al patrimonio comune tutti devono poter attingere. L’emarginazione sociale è contro la democrazia e l’idea che nessuno possa essere lasciato indietro, abbandonato a se stesso e alle difficoltà della sua vita particolare, non è un suo elemento accidentale, che può esserci o non esserci, a seconda delle politiche del momento. Il Giudice democratico di Bertolt Brecht che, per includere il debole, adegua la domanda alla risposta e non esige la risposta adeguata a una domanda crudele, è un perfetto esempio di questo atteggiamento della democrazia.[18]

L’alternativa alla solidarietà, parola che esprime in sintesi questi concetti, è il darwinismo applicato alla vita sociale, un’ideologia crudele che legittima il dominio dei più forti e abbandona i deboli alla loro sorte di emarginazione, alla fine li condanna alla sparizione e giustifica questa ‘selezione naturale’ della ‘zavorra’ in base al beneficio che ne viene per l’organismo sociale[19]. Nella scuola questi problemi sono pane quotidiano per gli insegnanti. Essi hanno a che fare tutti i giorni con classi di studenti in cui convivono quelli che eccellono con quelli che faticano a tenere il passo o con altri che la natura ha privato della dotazione normale di risorse intellettuali; sono problemi che conoscono bene per diretta esperienza e vivono spesso drammaticamente: la loro fatica, che non cede alla tentazione darwiniana, merita solidarietà.

10. La cura delle parole.

Essendo la democrazia una convivenza basata sul dialogo, il mezzo che permette il dialogo, cioè le parole, deve essere oggetto di una cura particolare, come non si riscontra in nessuna altra forma di governo. Cura duplice: in quanto numero e in quanto qualità.

a) Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole, poche idee, poche possibilità, poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica. Quando il nostro linguaggio si fosse rattrappito al punto di poter pronunciare solo sì e no, saremo pronti per i plebisciti; e quando conoscessimo solo più i sì, saremmo nella condizione del gregge che può solo obbedire al padrone. Il numero delle parole conosciute, inoltre, assegna i posti entro le procedure della democrazia. Ricordiamo ancora la scuola di Barbiana e la sua cura della parola, l’esigenza di impadronirsi della lingua[20]? Comanda chi conosce più parole. Il dialogo, per essere tale, deve essere paritario. Se uno solo sa parlare, o conosce la parola meglio di altri, la vittoria non andrà all’argomento, al logos migliore, ma alla persona più abile con le parole, come al tempo dei sofisti. Ecco perché la democrazia esige una certa uguaglianza – per così dire – nella distribuzione delle parole. «È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa di meno». Ecco perché una scuola ugualitaria è condizione di democrazia.

b) Con il numero, la qualità delle parole. Le parole non devono essere ingannatrici, affinché il dialogo sia onesto. Parole precise, specifiche, dirette; basso tenore emotivo, poche metafore; lasciar parlar le cose attraverso le parole, non far crescere parole con e su altre parole; no al profluvio che logora e confonde. Esemplare è la prosa di Primo Levi. Le parole, poi, devono rispettare il concetto, non lo devono corrompere. Altrimenti, il dialogo diventa un inganno, un modo di trascinare gli altri dalla tua parte con mezzi fraudolenti. Ancora impariamo da Socrate: «Sappi che il parlare impreciso non è soltanto sconveniente in se stesso, ma nuoce anche allo spirito»; «il concetto vuole appropriarsi del suo nome per tutti i tempi», il che significa innanzitutto saper riconoscere e poi saper combattere ogni fenomeno di neolingua, nel senso spiegato da George Orwell. E significa affermare la sovranità della “cosa” detta sulla “sovranità della parola”, separata dalla sua verità e trasformata così in mezzo onnipotente di espropriazione dal discorso del suo contenuto di verità, secondo la forzatura che ne fecero fin dall’inizio Gorgia e i sofisti.

I luoghi del potere sono per l’appunto quelli in cui questo tradimento si consuma più che altrove, a incominciare proprio dalla parola ‘politica’. Politica viene da polis e politéia, due concetti che indicano il vivere insieme, il convivio. È l’arte, la scienza o l’attività dedicate alla convivenza. Ma oggi parliamo normalmente di politica della guerra, di segregazione razziale, di politica espansionista degli stati, di politica coloniale, ecc. «Questa è un’epoca politica – si è detto – La guerra, il fascismo, i campi di concentramento, i manganelli di gomma, le bombe atomiche sono quello di cui scriviamo». La strapazzatissima citazione di Clausewitz «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi» – che colloca, sì, la guerra in un contesto politico, ma la qualifica espressamente come mezzo diverso da quelli politici – è diventata un lasciapassare per un radicale tradimento del concetto: la celebre definizione di Carl Schmitt, ripetuta alla nausea, della politica come rapporto amico-nemico, un rapporto di sopraffazione, di inconciliabilità assoluta tra parti avverse[21] è forse l’esempio più rappresentativo di questo abuso delle parole. Qui avremmo, se mai, la definizione essenziale non del “politico” ma, propriamente, del “bellico”, cioè del contrario.

Ancora: la libertà, che nei tempi nostri ha il significato di protezione dei diritti degli inermi contro gli arbitri dei potenti, è diventata lo scudo sacro dietro il quale proprio costoro nascondono la loro prepotenza e i loro privilegi.

E ancora: la giustizia, da invocazione di chi si ribella alle ingiustizie del mondo, si è trasformata in parola d’ordine di cui qualunque uomo di potere si appropria per giustificare qualunque propria azione.

E ancora, ancora: legge di mercato per sfruttamento; economia sommersa per lavoro nero; guerra preventiva per aggressione; pacificazione per guerra; governare per depredare; deserto per pace[22].

Da questi esempi si mostra la regola generale cui questa perversione delle parole ubbidisce: il passaggio da un campo all’altro. Quando si tratta di parole e concetti della politica, normalmente il passaggio è dal mondo di coloro che al potere sono sottoposti a quello di coloro che del potere dispongono. Un uso ambiguo, dunque, di fronte al quale a chi pronuncia queste parole dovrebbe sempre porsi la domanda: da che parte stai? Degli inermi o dei potenti?

  • Antonio Gramsci, tratto da “La Città Futura”: Odio gli indifferenti (11febbraio 1917)

“L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.

L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E’ la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.

Odio gli indifferenti anche per questo :perche’ mi da fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

LETTURE CONSIGLIATE MAURIZIO VIROLI ,ED ANTICORPI LA TERZA : “ LA LIBERTA’ DEI SERVI “ e GUSTAVO ZAGREBELSKY ,ED ILIBRA  LA TERZA :” CONTRO LA DITTATURA DEL TEMPO PRESENTE .PERCHE’ E’ NECESSARIO UN DISCORSO SUI FINI

  • Pericle – Discorso agli Ateniesi, 431 a.C. (inizio guerra del peloponneso). Tratto da Tucidide, Storie, II, 34-36

Qui ad Atene noi facciamo così.

Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.

Qui ad Atene noi facciamo così.

 Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.

Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.

Qui ad Atene noi facciamo così.

La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.

Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.

Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.

E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.

Qui ad Atene noi facciamo così.

Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.

Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.

Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.

Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.

Qui ad Atene noi facciamo così.

  • Il presidente della Corte Costituzionale: “Al referendum bisogna votare” di Ugo Magri, pubblicato su La Stampa (11 Aprile 2016)

Al referendum di domenica prossima sulle trivelle è giusto votare, perché «la partecipazione al voto fa parte della carta d’identità del buon cittadino». Così ha risposto il presidente della Corte costituzionale, Paolo Grossi, durante la conferenza stampa annuale al Palazzo della Consulta. La domanda riguardava la legittimità degli appelli astensionisti, che sono giunti nei giorni scorsi anche dal presidente del Consiglio. Grossi ha dato una risposta che, nella sostanza, non si discosta affatto da quanto stabilisce la Carta della Repubblica all’articolo 48 secondo comma: «Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico». Un dovere di ogni buon cittadino, appunto. Poi, precisa Grossi, una volta nella cabina elettorale «ognuno è libero di esprimere il proprio convincimento. Ma credo che al voto si debba partecipare, in quanto il referendum è per noi, è per ciascuno di noi». Nessun giudizio, invece, sull’indicazione astensionista del premier.

  • Parlamento latinoamericano>

Il Parlamento latinoamericano (Parlatino), è un’organizzazione permanente regionale composto dai paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Si tratta di un’assemblea consultiva simile alla precoce Parlamento europeo . [1]Attualmente l’istituto viene considerato a diventare l’organo legislativo della Comunità di Stati Latinoamericani e dei Caraibi.

  • Parlamento panafricano:

E ‘l’organo legislativo dell’Unione africana. Attualmente non ha alcun potere reale, ma ha il potere di consigli e di consultazione. Si compone di 265 deputati eletti sulle legislature dei 53 Stati membri dell’Unione africana. Il Pan – Parlamento africano è una piattaforma comune per i popoli africani e le loro organizzazioni che hanno una maggiore partecipazione a discussioni e decisioni i problemi e le sfide che il continente.l’obiettivo finale del Pan – Parlamento africano è di diventare un’istituzione con pieni poteri legislativi, i cui membri sono eletti a suffragio universale.

Obiettivi:
– Per facilitare l’efficace attuazione delle politiche e degli obiettivi della dell’OUA / AEC e successivamente quelli dell’Unione africana.
– Per promuovere i principi dei diritti umani e della democrazia in Africa.
– Promuovere la buona governance, la trasparenza e la responsabilità conti nei paesi membri.
– familiarizzare popoli africani con gli obiettivi e le politiche volte ad integrare il continente africano attraverso la creazione dell’Unione africana.
– a promuovere la pace, la sicurezza e la stabilità del continente.
– Contribuire ad un più prospero futuro per l’Africa attraverso la promozione dell’autonomia collettiva ed economica dei popoli di recupero futuro.
– per facilitare la cooperazione e lo sviluppo in Africa.
– rafforzare la solidarietà continentale e sensibilizzare destino comune tra i popoli dell’Africa.
– Per facilitare la cooperazione tra le comunità economiche regionali e le loro forum parlamentari.

  • Paesi ACP:

Gruppo degli stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico:
Il gruppo dei paesi ACP (sigla di Africa, Caraibi e Pacifico) è formato dai paesi in via di sviluppo che partecipano al sistema di partenariato e cooperazione con l’Unione europea istituito dalla Convenzione di Lomé del 1975 e confermato dalla Convenzione di Cotonou del 2000.[1]

Il numero dei paesi ACP è passato da 46 nel 1975 a 79 nel 2012 (48 paesi dell’Africa subsahariana, 16 dei Caraibi e 15 del Pacifico)[2].

Oltre alla loro partecipazione allo stesso sistema di partenariato, i paesi ACP sono uniti da istituzioni comuni e da un segretariato permanente.

  • Dizionario di economia e finanza Treccani

Partenariato.  Relazione di collaborazione che si stabilisce tra due o più attori (partner), specialmente in ambito commerciale, politico o industriale. Tale forma di collaborazione può coinvolgere anche organismi rappresentativi di diversi Paesi con la finalità di affrontare specifiche tematiche di interesse comune (come la lotta contro la fame nel mondo).

Partenariato euromediterraneo. Sistema di relazioni multilaterali che sottende la politica di prossimità dell’Unione Europea (PEV, Politica Europea di Vicinato) nei confronti dell’area mediterranea. Raccoglie l’insieme delle relazioni multilaterali politiche, economiche, sociali e culturali sottoscritto nella conferenza di Barcellona del 1995 (cosiddetto processo di Barcellona), dai ministri degli Esteri dell’Unione Europea e da quelli di 12 Paesi del bacino del Mediterraneo (Marocco, Algeria e Tunisia, Egitto, Israele, Giordania, Autorità Palestinese, Libano e Siria, Turchia, Cipro e Malta). Il quadro delle relazioni euromediterranee ha conosciuto un’evoluzione e un ampliamento con la costituzione, nel 2008 a Parigi, dell’Unione per il Mediterraneo, organismo internazionale intergovernativo istituito su proposta del presidente francese N. Sarkozy. L’obiettivo strategico di rafforzare le relazioni tra la UE e i Paesi con essa confinanti a est si è concretizzato con il varo (vertice di Praga del maggio 2009) di un p. orientale che coinvolge le repubbliche già sovietiche non integrate nell’Unione Europea (Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina) in un quadro multilaterale di accordi di associazione in ambito politico e socioeconomico.

  • Magris, che sorpresa il tuo sì alle riforme. di Maurizio Viroli, pubblicato su Il Fatto Quotidiano (11 febbraio 2016)

La Costituzione vale più del governo, di qualsiasi governo, se hai a cuore la libertà e dignità della Repubblica
Caro Magris, sono rimasto sconcertato nel leggere le considerazioni che hai svolto sulla riforma costituzionale e sul governo Renzi nel corso di una trasmissione televisiva. Ho sempre ammirato, lo sai bene, i tuoi scritti e nutro profondo rispetto per la tua biografia intellettuale e morale ove ho spesso avvertito un forte spirito repubblicano lontano del realismo senza principi che domina la mentalità italiana.
Ricordo in particolare un bel passo del tuo Livelli di guardia in cui, a proposito dell’infelice frase di Angelo Panebianco, che “i principi servono solo se si resta vivi”, ribattevi giustamente che “accade talvolta di restare vivi perché qualcuno, in nome di quei princìpi, muore, per difendere chi è minacciato”.
Orbene, a me pare che quando sostieni che voterai sì al referendum perché ritieni che la riforma di Renzi-Boschi-Verdini garantisca “uno snellimento dei tempi” del processo legislativo tu abbia sacrificato fondamentali principi dell’ordine politico repubblicano in nome di una discutibile e del tutto pretestuosa esigenza tecnica di risparmio di tempo.
Il primo e fondamentale principio che la riforma viola è quello della legittimità. In base all’art. 138 il Parlamento NON ha il potere di approvare una riforma della Costituzione; ha soltanto il potere di approvare una revisione della Costituzione.
Non devo certo spiegare a te la differenza fra riforma e revisione. Quella varata dal Parlamento, è una nuova costituzione che soltanto un’Assemblea costituente avrebbe l’autorità legittima di varare. Il carattere del tutto illegittimo della riforma renziana è poi ulteriormente rafforzato dal fatto che la Corte costituzionale ha sancito che questo Parlamento è stato eletto con metodo incostituzionale (sentenza 1/2014).
Abbiamo così un Parlamento eletto in modo incostituzionale che vota una riforma che non ha l’ autorità di votare. Ce n’è davanzo per una disobbedienza civile.
Tu condividi la riforma perché vuoi uno snellimento dei tempi per l’approvazione delle leggi. Permettimi di farti rilevare, in amicizia, che trovo il tuo ragionamento poco savio. Se elevi l’esigenza della rapidità al disopra dell’esigenza della legittimità finisci col guardare di buon occhio non la democrazia, ma l’autocrazia.
NELLA STORIA del pensiero politico i fautori dell’autocrazia hanno sempre sostenuto che il sovrano assoluto decide più rapidamente dei consigli repubblicani e democratici. Noi ora, in nome di una presunta rapidità dell’i t e r deliberativo dobbiamo rinunciare alla legittimità della Costituzione, rinunciare a una parte importante della sovranità popolare (non eleggeremo più i senatori), rinunciare a una seria camera alta che limiti opportunamente il potere della Camera dei deputati.
No, grazie.
Dico presunta rapidità, perché se guardi bene il testo della riforma ti accorgerai che è talmente macchinoso da rendere poco probabile il promesso snellimento. Ha detto bene Giovanni Sartori: questa è una riforma scritta da incompetenti. E da incalliti bugiardi, aggiungo. La storia della lentezza del nostro processo legislativo è una favola per bambini. Per una volta lasciami riprendere uno scritto che ho pubblicato su questo giornale il 30 luglio 2014: il governo Letta, rimasto in carica dal 28 aprile 2013 fino al 22 febbraio 2014 per un totale di 300 giorni, ovvero 9 mesi e 25 giorni, ha approvato 35 leggi. Il governo Monti dal 16 novembre 2011 al 21 dicembre 2012 ne ha approvate 44. Il governo Berlusconi IV, rimasto in carica dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011 ha approvato 230 leggi. Grosso modo gli ultimi tre governi sono stati in grado di approvare una legge ogni 10 giorni (considerando tutti i 365 giorni dell’ anno)”.
Lo ha rilevato anche Eugenio Scalfari, un anno dopo: “Come risulta dallo studio dell’apposito Ufficio di Palazzo Madama, il tempo medio impiegato dall’approvazione delle leggi in un testo definitivo da entrambi i rami del Parlamento non è affatto lunghissimo: supera di poco i tre mesi e con pochi ritocchi può essere imposto un tempo minimale”(Repubblica 12 agosto 2015). Non ti offende di essere ingannato in modo così spudorato?
Forse sbaglio, ma dalle tue parole ho tratto l’impressione che la ragione vera che ti spinge a votare “Sì” sia il timore che in caso di vittoria del “No ” il governo Renzi, che tu reputi il meno peggio, cadrebbe. Se questo è il tuo pensiero, ti invito a riconsiderare la tua decisione, e a mettere i principi al disopra del realismo spicciolo.
Questa volta il principio è davvero semplice ma solenne: la Costituzione vale più del governo, di qualsiasi governo, se hai a cuore la libertà e dignità della Repubblica.

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