Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 20


Articolo 20

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica.
2. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione.


  • Articolo 20 – Diritto alla partecipazione. Tratto dal commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova

Perché siano legittime ed abbiano quindi diritto ad essere garantite dalla legge, riunioni e associazioni devono essere “pacifiche”, quanto a scopi e quanto a mezzi e modalità di operare. Ritroviamo questo aggettivo nel testo della Dichiarazione delle Nazioni Unite “sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti” (1998), in particolare nell’articolo 12: “Tutti hanno diritto, individualmente e in associazione con altri, di partecipare ad attività pacifiche contro le violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali” (corsivo aggiunto).

L’Articolo 1 di questa Magna Charta dei difensori dei diritti umani proclama che la promozione e la realizzazione dei diritti umani può avvenire sia individualmente sia “in associazione con altri”. Il successivo Articolo 5 è di particolare importanza per il ruolo che le formazioni organizzate di società civile possono svolgere nello spazio glocale, che comincia nella città e nel villaggio e si estende fino alle grandi istituzioni multilaterali: “Allo scopo di promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali, tutti hanno il diritto, individualmente e in associazione con altri, a livello nazionale e internazionale: a) di riunione e assemblea pacifica; b) di formare, aderire e partecipare a organizzazioni non governative, associazioni o gruppi; c) di comunicare con organizzazioni non governative o intergovernative”.

Si è dunque legittimati a formare organizzazioni non soltanto a struttura e raggio di operatività locali o nazionali, ma anche internazionali o, più precisamente, transnazionali. Amnesty International è la tipica organizzazione non governativa transnazionale.
Di strutture organizzative, liberamente e spontaneamente create in ambienti che oggi chiamiamo di società civile globale, c’è traccia già nella Carta delle Nazioni Unite (1945). L’Articolo 71 dispone infatti che “il Consiglio Economico e Sociale può prendere opportuni accordi per consultare le organizzazioni non governative interessate alle questioni che rientrano nella sua competenza. Tali accordi possono essere presi con organizzazioni internazionali e, se del caso, con organizzazioni nazionali, previa consultazione con lo Stato membro delle Nazioni Unite interessato”.

E’ utile ricordare che, sulla base di questa disposizione, si è sviluppata una formale prassi di “status consultivo” di cui le organizzazioni non governative, ONG, possono avvalersi al fine di partecipare, in veste appunto consultiva, ai processi di presa delle decisioni alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni intergovernative. Perché possano ottenere questo “status”, le ONG devono perseguire fini compatibili con quelli delle Nazioni Unite e avere una struttura democratica. Le ONG alle Nazioni Unite sono oltre 3.500 delle circa 50.000 censite nell’Annuario dell’Unione delle Associazioni Internazionali, UAI. Circa 400 sono quelle presso il Consiglio d’Europa. Le ONG sono anche all’UNESCO, alla FAO, all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nell’Unione Europea non esiste il regime dello “status consultivo”, ma le ONG, talora chiamate anche ‘organizzazioni di società civile’, OSC, possono far parte dei numerosi “Comitati consultivi” della Commissione e del Consiglio e partecipare al cosiddetto “dialogo civile” nonché ricevere contributi finanziari nel quadro di specifici programmi europei. In particolare, nell’UE sono attive reti europee di società civile che hanno preso la forma di “piattaforme europee”: Piattaforma delle ONG sociali europee, Forum europeo della disabilità, Lobby europea delle donne, Network europeo contro la povertà, Confederazione delle ONG europee per l’aiuto e lo sviluppo, Green Ten, e molte altre.

Come per altri Articoli della Dichiarazione universale, anche per l’Articolo 20 il Patto internazionale sui diritti civili e politici precisa e integra il contenuto. Stabilisce infatti il suo Articolo 22 che il diritto alla libertà di associazione “include il diritto di costituire sindacati e di aderirvi per la tutela dei propri interessi”. Prevede inoltre che la legge interna degli stati possa porre restrizioni all’esercizio di tale diritto, in particolare se i soggetti sono “membri delle forze armate e della polizia”.
Le riunioni possono consistere anche in manifestazioni di carattere anomico, ma nonviolento, nel senso di andare oltre, ma non contro, la legge: tali sono, per esempio, i sit-in, le marce, i cortei, i digiuni.

Le organizzazioni non governative e, più in generale, le associazioni a fini di solidarietà, svolgono un ruolo importante anche per quanto riguarda la preparazione di documenti giuridici internazionali, partecipando attivamente, con proposte, alle attività degli appositi “Gruppi di lavoro” formati dagli stati. Si ricorda, fra i tanti esempi, quello del ruolo svolto all’ONU da “Save the Children” e da Amnesty International per la elaborazione del testo della Convenzione internazionale sui diritti dei bambini, o dalle associazioni delle persone con disabilità (tra le quali, molto attiva, la FISH) per la più recente Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità. Le ONG, per rendere ancora più efficace il lavoro di solidarietà e liberazione umana, sempre più si coordinano all’interno di reti (networks) o di piattaforme: tra le tante, si segnalano la rete delle ONG che hanno promosso la Convenzione internazionale per l’interdizione delle mine antipersona e ne sorvegliano l’applicazione, la rete di ONG che hanno “campagnato” per la creazione della Corte penale internazionale e sorvegliano l’applicazione della Convenzione internazionale che ne contiene lo Statuto. Ancora: numerose ONG stanno seguendo l’iter di approvazione finale dei “Principi-guida su diritti umani e povertà estrema: i diritti del Povero”, documento preparato dal Consiglio diritti umani delle Nazioni Unite. Le ONG presentano ai pertinenti Comitati diritti umani delle Nazioni Unite contro-rapporti rispetto ai rapporti che gli stati sono giuridicamente obbligati a sottoporre ogni quattro o cinque anni all’esame di detti Comitati.
La fertile galassia dell’associazionismo transnazionale non profit è in continuo sviluppo e sempre più consapevolmente si riconosce nel Diritto internazionale dei diritti umani e ne rivendica l’applicazione in sede nazionale e internazionale. Gli operatori delle ONG, in particolare di quelle che si caratterizzano per spirito di volontariato, sono i genuini pionieri della cittadinanza universale.

Sempre più chiaro e marcato in senso politico è il ruolo svolto da “coordinamenti” quali la Tavola della Pace, che promuove e organizza la Marcia della pace Perugia-Assisi e, a partire dal 1995, le sessioni biennali dell’Assemblea dell’ONU dei Popoli, di altissima visibilità e rappresentatività internazionale. Vanto dell’Italia democratica in sede internazionale è anche il ‘Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani”, associazione formata da oltre 700 tra Comuni, Province e Regioni, che rappresentano più della metà della popolazione della Repubblica Italiana. Essi sono, primariamente, “Organi della società”, dunque sono tra i soggetti presi in considerazione della Magna Charta dei difensori dei diritti umani. Come tali, sono gli alleati naturali delle formazioni organizzate di società civile.

E’ appena il caso di sottolineare che l’associazionsimo è linfa vitale della democrazia, soprattutto della democrazia partecipativa. L’Italia è ricca di associazionismo e di volontariato e i suoi governanti dovrebbero esserne consapevoli, anche per rappresentare in sede internazionale il volto pulito e creativo del Paese.
Infine, una competente e responsabile educazione civica, a cominciare da quella impartita nelle scuole, deve motivare i giovani a far parte attiva di organizzazioni non governative e di gruppi di volontariato. Presso ogni scuola dovrebbe figurare l’elenco delle associazioni e dei gruppi di volontariato, che i rispettivi Comuni e Regioni tengono aggiornato. Gli insegnanti-educatori non esitino a invogliare i giovani ad esercitare responsabilità sociale nella forma del servizio al bene comune e ai gruppi più vulnerabili. Questo non è ‘fare propaganda’, ma “indicare percorsi d’azione” quale componente essenziale del programma educativo. Certamente, come dice l’articolo 20 della Dichiarazione universale, ‘nessuno può essere costretto a far parte di una associazione”: l’educatore infatti elucida valori, aiuta a interiorizzarli, indica percorsi per la loro incarnazione. Ai giovani e alle loro famiglie tirarne le somme, in tutta libertà.

  • Articolo 17 Costituzione Repubblica Italiana

I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi.

Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.

Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

  • “Libertà di riunione” da Enciclopedia Treccani

La libertà di riunione è uno dei diritti costituzionali garantiti nella Costituzione repubblicana all’art. 17. Essa è sancita, in linea di principio, in modo assoluto, con la sola limitazione che si tratti di riunioni pacifiche e senza armi. Per riunione pacifica si intende quella che non turbi l’ordine pubblico, non in senso ideale, ma in senso concreto, materiale. Non è richiesto preavviso per le riunioni in luogo aperto al pubblico, mentre per quelle in luogo pubblico deve essere dato preavviso, almeno tre giorni prima, alle autorità, che possono vietarle solo per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica. È stato osservato dalla dottrina che la Costituzione non conosce solo riunioni preavvisabili, in quanto il dovere di preavviso è imposto solo ai promotori di riunioni che per il numero elevato di partecipanti hanno una più rilevante capacità di pregiudicare i diritti dei terzi e di costituire una ragione d’allarme per l’ordine pubblico. Sembra pertanto superato, anche in relazione all’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in materia, il tradizionale orientamento secondo cui il preavviso costituiva condizione di legittimità della riunione, che era da ritenersi illecita in mancanza di esso.

  • Articolo 18 Costituzione Repubblica Italiana

I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale [cfr. artt. 19, 20, 39, 49].

Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.

  • “Libertà di associazione” da Enciclopedia Treccani

La libertà di associazione è espressamente prevista e disciplinata all’art. 18 Cost. Essa rientra, insieme alla libertà di riunione (art. 17 Cost.), tra le c.d. libertà collettive, cioè tra quelle libertà che presuppongono una pluralità di soggetti, accomunati da un unico fine, il cui esercizio non si esaurisce nella difesa di una sfera di autonomia individuale, ma è volto alla realizzazione di quelle finalità.

La libertà di associazione non era direttamente prevista nello Statuto albertino, ma la dottrina la deduceva dalla libertà di riunione (art. 32). Libertà di associazione e libertà di riunione si distinguono tra loro perché, mentre la seconda è caratterizzata dalla materiale compresenza di più persone in un determinato luogo, la libertà di associazione prescinde da questa, essendo rilevante, invece, il vincolo giuridico esistente tra gli associati. Ulteriori specificazioni costituzionali della libertà di associazione sono, in particolare, la libertà di associazione in confessioni religiose (artt. 7, 8 e 20 Cost.), quella di associazione in sindacati (art. 39 Cost.), quella di associazione in partiti politici (art. 49 e XII disp. trans. fin. Cost.; Partito politico): in questo senso, quindi, la libertà di associazione costituisce uno degli aspetti fondamentali del pluralismo sociale ed è, a sua volta, una specificazione di quella tutela generale, riconosciuta all’art. 2 Cost., al singolo ed alle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità.

L’art. 18, co. 1, Cost. non riprende la distinzione contenuta nel codice civile tra associazioni riconosciute e non riconosciute e garantisce ad ogni cittadino (rectius persona) il diritto di associarsi liberamente «per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale», senza bisogno di un’autorizzazione preventiva: in sostanza, tutto ciò che è penalmente lecito al cittadino uti singulus, gli è ugualmente lecito uti socius. La libertà di associazione contiene un profilo positivo (la libertà di costituire un’associazione o di aderirvi) ed uno negativo (la libertà di non associarsi o di recedere da un’associazione). Una deroga a questi principi è costituita dalle associazioni coattive, che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, sono giustificate solo quando lo esiga un interesse pubblico. La libertà di associazione in generale comporta poi la libertà dell’associazione di organizzarsi come meglio crede, mentre un riferimento alla struttura interna «a base democratica» e al «metodo democratico» sussiste ex artt. 39 e 49 Cost., nel caso rispettivamente dei sindacati e dei partiti politici.

I limiti della libertà di associazione. – Un limite generale alla libertà di associazione è poi costituito dal divieto delle associazioni segrete e delle associazioni che, anche indirettamente, perseguano scopi politici attraverso un’organizzazione di tipo militare (art. 18, co. 2, Cost.). Con riferimento a queste ultime, è stata data pronta attuazione al testo costituzionale (d.lgs. n. 43/1948), mentre maggiori problemi sono sorti con riferimento al divieto di associazioni segrete, in quanto la disciplina legislativa di riferimento è stata adottata solo con la l. n. 17/1982. In particolare, la dottrina si è interrogata se tutte le associazioni che tendevano a non rendere pubblici gli elenchi dei loro aderenti rientrassero nel divieto ex art. 18, co. 2, Cost., ma è prevalsa una concezione restrittiva della nozione di segretezza, nel senso che si è ritenuto che rientrassero in esso solo le associazioni che perseguono scopi politici.

Secondo la l. n. 17/1982, le associazioni segrete vietate ex art. 18, co. 2, Cost. sono sciolte con d.P.C.m., previa deliberazione del Consiglio dei ministri, quando l’autorità giudiziaria ne accerti la segretezza con sentenza passata in giudicato. Un ulteriore limite alla libertà di associazione è rappresentato dal divieto di ricostituzione del disciolto partito fascista, disposto alla XII disp. trans. fin. Cost. e disciplinato con la l. n. 645/1952 (Partito politico).

  • Film Selma –  La strada per la libertà di Ava DuVernay (2015)

Cinquant’anni dopo i terribili fatti avvenuti a Selma, che videro protagoniste le persone di colore vittime di una violenza assurda ed atroce, la marcia non è ancora finita. Dopo la morte di un ragazzino di colore, ad opera di un poliziotto bianco, Obama ha deciso di proseguire la marcia indetta da Martin Luther King, nel 1965 a Selma, in Alabama per ribadire l’uguaglianza fra neri e bianchi.

Ecco dunque che quest’anno si ricorda la famosa marcia di Selma, con l’omonimo film, perché ci sono eventi drammatici che non si possono cancellare o dimenticare. Ci sono eventi drammatici, nella storia, che hanno causato tragedie, che hanno modificato la società che oggi noi conosciamo e che hanno plasmato gli ideali del mondo intero. Non esiste solo la Shoah ed Hiroshima, esistono anche i genocidi e le persecuzioni delle etnie diverse. Ecco perché è importante ricordare i fatti avvenuti a Selma.

Martin Luther King, a capo di un movimento pacifico che rivendica l’uguaglianza fra le razze, riceve il premio nobel per la pace. Contemporaneamente, in America, una chiesa con dei bambini neri all’interno, esplode causando una tragedia.

Una donna nera cerca di registrarsi all’ufficio elettorale, per aver il diritto di votare e farsi votare, ma per l’ennesima volta viene respinta con un pretesto.

King viene ricevuto dal presidente Johnson con cui ha un buon rapporto e dal quale è stimato, decidendo di proporgli il suo progetto: dare il voto alle persone nere, che in teoria potrebbero votare ma in pratica viene loro impedito o sono vittime di violenze ed intimidazioni, e se non possono votare, non hanno accesso neanche alla giustizia e quindi non si può dire che vi sia uguaglianza fra bianchi e neri. Ma il Presidente liquida la sua richiesta adducendo come scusa il fatto che sia un passo affrettato, che si potrebbero generare disordini e conseguenze più gravi. Gli stati del sud in particolare, andrebbero a creare tumulti e disordini, non accettando il nuovo provvedimento che garantirebbe ai neri di votare liberamente.

King decide allora di recarsi proprio nel cuore del problema: Selma, stato razzista in cui le persone di colore vivono una vita ai limiti del tollerabile.

King inizia ad organizzare discorsi e marce, che purtroppo però sovente finiscono represe con la violenza dalla polizia razzista. Wallace, il governatore, è particolarmente razzista e deciso a schiacciare tutte le persone di colore che si ribellano all’odio nei loro confronti. King continua a parlare, lo incarcerano, lo liberano, lo aggrediscono ma lui non si ferma e prosegue la sua battaglia.

Al tempo stesso King si ritrova in una situazione familiare logorata: sua moglie riceve in continuazione telefonate crude ed oscene ed ha sempre timore che il marito non torni più a casa, da lei e dai loro figli. Proprio per recuperare un poco del loro rapporto, King decide di non partecipare alla marcia di Selma che sfocerà in una violenza inaudita, con cariche di poliziotti bianchi sull’inerme popolazione nera  .A questo punto il Presidente e’ costretto ad intervenire e a favorire le richieste di Martin Luther King.

  • La Libertà di Giorgio Gaber

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero.

Come un uomo appena nato

che ha di fronte solamente la natura,

e cammina dentro un bosco

con la gioia d’inseguire un’avventura.

Sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo

compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero

non è neanche il volo di un moscone

la libertà non è uno spazio libero

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno

di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio

solamente nella sua democrazia.

Che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero

non è neanche il volo di un moscone

la libertà non è uno spazio libero

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto

che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura

con la forza incontrastata della scienza

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero

non è neanche il volo di un moscone

la libertà non è uno spazio libero

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero

non è neanche il volo di un moscone

la libertà non è uno spazio libero

libertà è partecipazione.        

La libertà fu scritta dal cantautore milanese in collaborazione con il suo fido amico Sandro Luporini, nel 1972, per lo spettacolo teatrale sociale Dialogo tra un impegnato e un non so. Pubblicata per la prima volta, nell’album live dello spettacolo, sarà resa pubblica con la registrazione in studio nell’album: Far finta di essere sani dell’anno successivo, 1973.

  • the Mothers of the Plaza de Mayo

Madri di Plaza de Mayo (in spagnolo Asociación Madres de Plaza de Mayo) è una associazione formata dalle madri dei desaparecidos, ossia i dissidenti scomparsi durante la dittatura militare in Argentina tra il1976 e il 1983.

L’associazione è dedita all’attivismo nel campo dei diritti civili ed è composta da donne che hanno tutte lo stesso obiettivo: rivendicare la scomparsa dei loro figli e ottenerne la restituzione, attività che hanno svolto e svolgono da oltre un trentennio. I figli delle madri di Plaza de Mayo sono stati tutti arrestati e tenuti illegalmente prigionieri (“desaparecidos”: letteralmente “scomparsi” in spagnolo) dagli agenti della polizia argentina in centri clandestini di detenzione durante annoverato come la guerra sporca, così chiamata per i metodi illegali ed estranei ad ogni diritto utilizzati dalla giunta militare, e la maggioranza di loro è stata prima torturata ed in seguito assassinata, e fatta sparire nella più assoluta segretezza.

Il loro emblema, un fazzoletto bianco annodato sulla testa, è il loro simbolo di protesta che in origine era costituito dal primo pannolino, di tela, utilizzato per i loro figli neonati. Il loro nome è originato dal nome della celebre piazza di Buenos Aires, Plaza de Mayo, dove queste donne coraggiose si riunirono per la prima volta e da allora, ogni giovedì pomeriggio, esse si ritrovano nella piazza e la percorrono in senso circolare, attorno alla piramide che si trova al centro, per circa mezz’ora.

NB: Lettura consigliata! Le irregolari di Massimo Carlotto, Edizioni E/O (1998)

  • Il discorso di Mario Savio a Berkeley, nel 1964. Enrico Deaglio racconta su Repubblica la storia del giovane attivista e del suo famoso discorso “non proprio Lincoln a Gettysburg, ma quasi”, sulla libertà di espressione. Tratto Da : Il Post, 5 ottobre 2014

 

Mario Savio fu un attivista politico statunitense, di origini italiane, leader del movimento studentesco Free Speech Movement che si sviluppò nell’autunno del 1964 all’Università della California, Berkeley. In quegli anni nel resto degli Stati Uniti cominciavano a formarsi altri movimenti simili in difesa dei diritti dei neri e come forma di protesta contro il governo per il coinvolgimento nella guerra in Vietnam. Savio ottenne grandissima popolarità negli Stati Uniti soprattutto per un breve discorso, di grande passione politica, rivolto ad alcune migliaia di studenti del campus, tenuto il 2 dicembre 1964. In un articolo su Repubblica Enrico Deaglio racconta quella giornata, il corteo e gli arresti (792 studenti) che seguirono quel discorso: “Non proprio Lincoln a Gettysburg, ma quasi”.

“LO STUDENTE CHE CAMBIÒ IL MONDO ” oggi avrebbe settantadue anni. Avrebbe potuto diventare un grande leader politico, ma non volle: la vita pubblica gli avrebbe richiesto troppi compromessi; quella privata fu fin troppo tormentata. Morì giovane, per un infarto, a soli cinquantaquattro anni. Si chiamava Mario Savio e il primo ottobre 1964 all’università di Berkeley — cinquant’anni fa — diventò il simbolo genuino e quasi involontario di un movimento degli studenti che sarebbe poi esploso in tutto il mondo quattro anni dopo, nello storico 1968. Ed ecco come andò la storia.

Siamo nell’autunno del 1964, nel campus di Berkeley, la più antica delle università statali della California, nella baia di San Francisco; l’anno che si avvia a finire è un concentrato di contraddizioni americane. John Kennedy è stato ucciso da appena dieci mesi, il repubblicano Barry Goldwater — uno che vede comunisti dappertutto e vorrebbe tirare la bomba atomica su Mosca — sfida il democratico texano Lyndon Johnson per diventare presidente. I ragazzi americani cominciano a morire in numero allarmante in un lontano posto chiamato Vietnam; nel Mississippi e in Alabama strani pastori battisti marciano chiedendo la fine della segregazione razziale e la televisione mostra immagini di attivisti picchiati, derisi, e qualche volta uccisi. Berkeley è il più grande campus della California, ventimila studenti bianchi, figli della nuova middle class. Di loro si dice che sono stati concepiti tra l’entrata in guerra e la prima licenza del coscritto.

Le ragazze hanno i capelli cotonati; occhiali di celluloide e camicia bianca per i maschi. Ci sono anche i primi gruppi politici del post maccartismo, che fanno propaganda alle più svariate cause; chiedono di poter svolgere liberamente l’attività politica dentro il campus, in particolare nella Sproul Plaza, il luogo di incontro studentesco su cui si affacciano biblioteche, laboratori, uffici, il teatro. Ma il rettore, Clark Kerr, è uno dalle idee chiare: niente volantini, niente raccolta di fondi, niente comizi con megafoni. Per il rettore Kerr, «le idee devono restare fuori dal campus, l’università è una fabbrica e serve a riempire le teste vuote, per farle lavorare per il sistema». Il rettore autorizza la polizia a circolare nel campus per garantire che la nuova classe dirigente non venga a contatto con idee strane.

Il primo ottobre la polizia ferma uno studente, Jack Weinberg, che ha allestito un tavolino da cui pubblicizza l’attività del CORE, il gruppo politico che si batte per il diritto al voto dei neri negli stati segregati del sud. Weinberg si rifiuta di dare i documenti, la polizia lo chiude in macchina, una folla di studenti accorre a proteggerlo. Ed ecco che uno sconosciuto studente si fa avanti. Alto, magrissimo, capelli a cespuglio, occhi azzurri, si toglie le scarpe «per non danneggiare una proprietà dello Stato» e sale sul tettuccio dell’automobile della polizia. Si chiama Mario Savio, viene da New York, figlio di emigrati siciliani. Rivendica il diritto degli studenti a parlare, scandisce « free speech! », invita gli studenti a resistere, ad opporre il proprio corpo al sopruso, «in modo non violento, ma con dignità». La trattativa, con Weinberg chiuso in macchina e i poliziotti intorno, durerà trentadue ore (!) fino a quando il rettore accetta di liberarlo. Ma non torna sui suoi passi sui divieti e la polizia diventa ospite fisso del campus.

Il 2 dicembre quattromila studenti si ritrovano di nuovo nella Sproul Plaza e di nuovo quello studente, Mario Savio, prende il microfono. Questa volta pronuncia il breve discorso che resterà nella storia della grande oratoria americana. Non proprio Lincoln a Gettysburg, ma quasi: “Il rettore ci ha detto che l’università è una macchina; se è così, allora noi ne saremo solo il prodotto finale, su cui non abbiamo diritto di parola. Saremo clienti — dell’industria, del governo, del sindacato… Ma noi siamo esseri umani! Se tutto è una macchina, ebbene… arriva un momento in cui il funzionamento della macchina diventa così odioso, ti fa stare così male dentro, che non puoi più parteciparvi, neppure passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote e gli ingranaggi, sulle leve, sull’apparato, fermare tutto. E far capire a chi sta guidando la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che finché non saremo liberi non potremo permettere alla macchina di funzionare.

  • L’ultimo reportage di Giulio Regeni, su un’affollata assemblea di uomini e donne per la libertà. Iniziative popolari e spontanee rompono il muro della paura nato dopo la speranza della primavera araba. Il Manifesto, edizione del 5 Febbraio 2016

Pubblichiamo qui l’articolo inviatoci da Giulio Regeni, e sollecitato via e-mail a metà gennaio, sui sindacati indipendenti in Egitto. Ci aveva chiesto di pubblicarlo con uno pseudonimo così come accaduto altre volte in passato. Dopo la sua scomparsa, rispettando prudenza e opportunità, l’abbiamo tenuto nel cassetto sperando in un esito positivo della vicenda. Dopo il barbaro omicidio al Cairo del ricercatore friuliano abbiamo deciso di offrirlo ai lettori come testimonianza, con il vero nome del suo autore, adesso che quella cautela è stata tragicamente superata dai fatti.

Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono. Si è appena svolto un vibrante incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano.

Sebbene la sala più grande del Centro abbia un centinaio di posti a sedere, la sera dell’incontro non riusciva a contenere il numero di attiviste e attivisti sindacali giunti da tutto l’Egitto per un’assemblea che ha dello straordinario nel contesto attuale del paese. L’occasione è una circolare del consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il governo e il sindacato ufficiale Etuf (unica formazione ammessa fino al 2008), con il fine esplicito di contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori.

Sebbene oggi Ctuws non sia rappresentativo della complessa costellazione del sindacalismo indipendente egiziano, il suo appello è stato raccolto, forse anche inaspettatamente, da un numero molto significativo di sindacati.

Alla fine, saranno una cinquantina circa le sigle che sottoscriveranno la dichiarazione di chiusura, rappresentanti dei più svariati settori economici, e dalle più svariate regioni del paese: dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale, dal Sinai all’Alto Egitto, passando per il Delta, Alessandria e il Cairo.

La circolare del governo rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali, fortemente ristrette dopo il colpo di stato militare del 3 luglio 2013, e ha così fatto da catalizzatore di un malcontento molto diffuso tra i lavoratori, ma che stentava fino ad oggi a prendere forma in iniziative concrete.

Movimento in crisi

Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di libertà politiche. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento, di cui il Ctuws è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione.

Tuttavia, negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la Edlc ed Efitu) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013.

Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza.

Gli interventi si sono succeduti a decine, concisi, spesso appassionati, e con un taglio molto operativo: si trattava di proporre e decidere insieme il «cosa fare da domani mattina», un appello ripetuto come un mantra durante l’incontro, data l’urgenza del momento e la necessità di delineare un piano d’azione a breve e medio termine.

Da notare la presenza di una nutrita minoranza di donne, i cui interventi sono stati in alcuni casi tra i più apprezzati e applauditi dalla platea a maggioranza maschile. La grande assemblea si è poi conclusa con la decisione di formare un comitato il più possibile rappresentativo, che si incarichi di gettare le basi per una campagna nazionale sui temi del lavoro e delle libertà sindacali.

Conferenze regionali

L’idea è quella di organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di pochi mesi ad una grande assemblea nazionale e possibilmente ad una manifestazione unitaria di protesta («a Tahrir!» diceva anche qualcuno tra i presenti, invocando la piazza che è stata teatro della stagione rivoluzionaria del periodo 2011-2013, e che da più di due anni è vietata a qualsiasi forma di protesta).

L’agenda sembra decisamente ampia, e include tra gli obiettivi fondamentali quello di contrastare la legge 18 del 2015, che ha recentemente preso di mira i lavoratori del settore pubblico, ed è stata duramente contestata nei mesi passati.

Nel frattempo, proprio in questi giorni, in diverse regioni del paese, da Assiut a Suez, al Delta, lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza: per lo più le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche.

Nuova ondata di scioperi

Si tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak.

Molte di queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate davanti ai giudici, i quali ne hanno spesso decretato la nullità, rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione.

Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro, e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismo indipendente che si è riunito al Cairo.

Ma rappresentano comunque una realtà molto significativa, per almeno due motivi. Da un lato, pur se in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan «Pane, Libertà, Giustizia Sociale» non sono riuscite sostanzialmente a intaccare.

L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento.

Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla «guerra al terrorismo», significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile.

 

  • Tienanmen, 26 anni fa le proteste e il massacro degli studenti da Rai News (3 Giugno 2015)

La foto simbolo, quella di uno studente che da solo si para davanti ai carri armati per fermarli Tweet Tienanmen, 26 anni fa il massacro degli studenti 03 giugno 2015 La notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 i carri armati dell’Esercito di Liberazione Popolare cinese uccisero nella Piazza, il cui nome rimane nella storia, centinaia di persone, mettendo fine alle proteste degli studenti che reclamavano la democrazia. La protesta La protesta in piazza Tienanmen era iniziata un mese e mezzo prima, il 15 aprile, quando, dopo la morte Hu Yaobang, ex-capo del Partito comunista e sostenitore di riforme democratiche, circa 100mila studenti si erano riuniti in piazza Tiananmen per commemorare il leader ed esprimere la loro insoddisfazione verso il governo di Pechino. Studenti provenienti da più di 40 università marciarono su piazza Tiananmen il 27 Aprile, dove furono poi raggiunti da operai, intellettuali e altri funzionari pubblici. A maggio più di un milione di persone riempì la piazza, luogo in cui nel 1949 Mao Zedong aveva dichiarato la nascita della Repubblica Popolare Cinese. Il 20 Maggio il governo impose la legge marziale a Pechino, e truppe corazzate furono inviate per disperdere i manifestanti. Il massacro Le forze governative in un primo tempo desistettero di fronte alla folla presente e si ritirarono, finché Deng Xiaoping all’epoca capo della Commissione Militare, ed uno dei maggiori leader del paese, diede ordine di far fuoco. Il risultato fu un massacro il cui bilancio ufficiale non è ancora stato accertato, poiché il governo cinese non ha finora mai reso pubblico alcun documento in merito ai fatti di Tienanmen. A centinaia caddero sotto i colpi delle armi automatiche dell’esercito. La foto simbolo In quell’anno, quello della caduta del Muro, molti regimi comunisti furono rovesciati in Europa. Foto simbolo della protesta quella di uno studente che da solo e completamente disarmato, si para davanti a una colonna di carri armati per fermarli, il cosiddetto ‘Rivoltoso sconosciuto’.

  • Le primavere arabe. Breve storia di un fenomeno controverso di Salvatore Lazzara, pubblicato su Sponda Sud News  (19 Settembre 2014)

 

Primavera araba è un termine di origine giornalistica utilizzato perlopiù dai media occidentali per indicare una serie di proteste ed agitazioni cominciate tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011. I paesi maggiormente coinvolti dalle sommosse sono la Siria, la Libia, l’Egitto, la Tunisia, lo Yemen, l’Algeria, l’Iraq, il Bahrein, la Giordania e Gibuti, mentre ci sono stati moti minori in Mauritania, in Arabia Saudita, in Oman, in Sudan, in Somalia, in Marocco e in Kuwait. Le vicende sono tuttora in corso in alcune regioni del Medio Oriente, del vicino Oriente e del Nord Africa. Dallo scoppio della cosiddetta primavera araba ad oggi, lo scenario appare radicalmente mutato. La spontaneità della ribellione, la grande partecipazione giovanile, l’imponenza delle manifestazioni di piazza e la non violenza del movimento, che avevano segnato il momento più alto di questa ondata rivoluzionaria, appare ormai irrimediabilmente trasformata in tragiche lotte di potere da parte dei terroristi islamici camuffati da ribelli moderati ed appoggiati in modo spudorato dall’occidente e dai paesi arabi coinvolti nei conflitti per motivi politici.

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