Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 15


 Articolo 15

1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza.
2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza.


Spunti di riflessione.

  • Commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova:

L’articolo 6 della Dichiarazione parla di “personalità giuridica” distintamente dalla “cittadinanza”. Commentando questo articolo abbiamo affermato che in virtù del riconoscimento giuridico internazionale dei diritti che ineriscono alla persona, questa è soggetto (primario) di Diritto internazionale.

Tradizionalmente concepita, la cittadinanza è una sorta di “ruolino di marcia” per l’esercizio di diritti e doveri della persona all’interno dei singoli ordinamenti nazionali per lo svolgimento di ruoli. In questo contesto, cittadinanza equivale ad appartenenza ad un determinato stato, il quale è il regolatore, più o meno ‘liberale’, più o meno arbitrario, dei diritti di cittadinanza. Cittadinanza nazionale significa diritto-potere di eleggere e di essere eletti in assemblee rappresentative, di ricorrere presso i tribunali, di ricevere certi sussidi in caso di bisogno, di beneficiare della ‘protezione diplomatica’ del proprio paese se ci si muove all’estero, significa dovere di prestare servizio militare o servizio civile (laddove obbligatori), ecc. La cittadinanza nazionale è una concessione dello stato con riferimento a parametri quali lo ius soli (diritto del territorio) o lo ius sanguinis (diritto di sangue).

Con l’avvento del Diritto internazionale dei diritti umani, fa per così dire irruzione sulla scena delle tipologie giuridiche la cittadinanza universale, ovvero lo eguale status di “tutti i membri della famiglia umana’ con corrispettivi ruoli da esercitare dentro e fuori degli stati di appartenenza ‘anagrafica’. Dal punto di vista giuridico-formale e naturalmente storico, le cittadinanze nazionali precedono la cittadinanza universale. Oggi, possiamo e dobbiamo parlare di cittadinanza plurale. Questo comporta la ridefinizione, meglio la ricostruzione del concetto di cittadinanza in quanto tale.

E’ utile avvalerci della metafora dell’albero. Il tronco raffigura lo status di cittadinanza della persona in quanto titolare di diritti fondamentali internazionalmente riconosciuti. Questi sono le radici del tronco. I rami significano la cittadinanze ‘anagrafiche’ nazionali: italiana, russa, israeliana, palestinese, cinese. Ci possono essere i rami dei rami: per esempio, la cittadinanza dell’Unione Europea è un ramo della cittadinanza italiana o di qualsiasi altra cittadinanza nazionale dei 27 paesi membri dell’UE. La eventuale cittadinanza veneta o parmigiana o calabrese sarebbe un ramo del ramo ‘cittadinanza italiana’. Guardando bene questo “albero”, ci accorgeremo che i rami non sono innestati nel tronco ma gli fluttuano intorno, peraltro in uno stato di forte sollecitazione a ricomporre la fisiologia dell’albero. E’ la dialettica in atto fra cittadinanza universale e cittadinanze nazionali, come dire tra lo ius humanae dignitatis (diritto della dignità umana) da un lato, e lo ius soli e lo ius sanguinis dall’altra. La sollecitazione che alle legislazioni nazionali – specie in tema di immigrazione – viene dalla cittadinanza universale è a ridefinire la cittadinanza nazionale in termini di inclusione.

Alla luce del ‘nuovo’ Diritto internazionale non c’è posto neppure per la apolidia, o, per meglio dire, l’apolide è cittadino universale allo stato puro.
La cittadinanza universale delle persone sollecita ad aprire spazi per l’esercizio dei corrispettivi diritti, in particolare dei diritti democratici per la legittimazione e il corretto funzionamento delle Istituzioni multilaterali. A livello regionale europeo, uno spazio si è aperto con l’elezione diretta dei membri del Parlamento Europeo. L’azione dei difensori dei diritti umani, come previsto dalla Dichiarazione-Magna Charta delle Nazioni Unite del 1998 che li riguarda, esperita a titolo individuale o tramite organizzazioni non governative, è un modo concreto di realizzare i diritti di cittadinanza universale. Così anche per i ricorsi giudiziari alle Corti e ai Tribunali internazionali o per le ‘comunicazioni individuali’ ai vari Comitati diritti umani delle Nazioni Unite.

La cittadinanza mondiale o planetaria o cosmopolitica preconizzata da personalità carismatiche quali Giorgio La Pira, Padre Ernesto Balducci e Papa Wojtyla è realtà giuridica. Si tratta di rimuovere la pigrizia e il conservatorismo degli adoratori dello stato-nazione-sovrano-armato-confinario con relativa cittadinanza ‘ad alios excludendos’ (costruite nel segno dell’esclusione dell’”altro”).

Partendo dai diritti umani non c’è neppure posto per la ‘reciprocità’ nel trattamento dei cittadini da parte degli stati, all’insegna di: io tratto i tuoi, come tu tratti i miei, se tratti male i miei, io tratto male i tuoi. E’ un parametro mercantile, valido per gli scambi commerciali. Il Diritto internazionale dei diritti umani obbliga lo stato a dire all’altro stato: io tratto i tuoi cittadini nel rispetto dei loro diritti fondamentali, a prescindere da come tu tratti i miei.

“Ciascuno ha il diritto, individualmente e in associazione con gli altri, di sviluppare e discutere nuove idee sui diritti umani e di operare per la loro accettazione”. Come dire: quod in are auditis, praedicate super tecta. Traduzione libera: se apprendiamo qualche idea buona – per esempio che la cittadinanza universale esiste giuridicamente come superiore grado di cittadinanza e le leggi degli stati in materia di immigrazione e cittadinanze nazionali devono adeguarvisi – facciamolo crescere dicendolo e amplificandolo nella comunità. Ricordandoci anche che l’articolo 10 della Costituzione della Repubblica Italiana stabilisce che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”.

  •  Lampedusa: Letta, Zagrebelsky, le forme e la sostanza, di Ines Tabusso, pubblicato su Il Fatto Quotidiano (7 ottobre 2013):

Di mancata attuazione della Costituzione parla oggi Gustavo Zagrebelsky a Liana Milella su la Repubblica: “C’è un paradosso – dice Zagrebelsky – tutti o quasi rendono omaggio alla prima parte della Costituzione, quella che tratta dei diritti, dei doveri, della giustizia, del lavoro, della libertà, della solidarietà. Quella parte descrive un tipo di società, molto lontana da quella in cui viviamo, che a noi invece pare tuttora di vivissima attualità. Proprio questa parte della Carta, però, è quella più largamente inattuata o violata. Le si può rendere omaggio in astratto perché ce ne si può dimenticare in concreto”.

Prendiamo l’articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale“. Subito torna in mente la frase a effetto (“…le persone che hanno perso la vita a Lampedusa da oggi sono cittadini italiani”) pronunciata venerdì dal presidente del Consiglio Enrico Letta, applaudito da una platea convinta ma dimentica del fatto che, mentre i morti acquistavano un astratto diritto di cittadinanza, nella realtà concreta, i sopravvissuti venivano indagati dalla procura di Agrigento per il reato di immigrazione clandestina (reato, pare, compatibile con il nostro ordinamento, secondo la Corte Costituzionale, che ha già respinto alcune eccezioni di incostituzionalità) e avviati a centri di accoglienza che di accogliente hanno ben poco.
Purtroppo la contraddizione, l’ennesima dimostrazione concreta, la più recente, delle affermazioni di Zagrebelsky, non è passata inosservata in Europa e sta costando all’Italia l’ennesimo punto sulla patente di scarsa serietà.

  • Migranti, rifugiati, profughi, richiedenti asilo. Una breve guida lessicale e al dibattito in corso sull’uso di queste parole: i rifugiati sono tutti migranti, ma i migranti sono tutti rifugiati? E i profughi?, pubblicato su Il Post (26 agosto 2015)

Parole come “profughi”, “rifugiati”, “migranti” e “richiedenti asilo” sono spesso usate (anche e soprattutto nelle semplificazioni giornalistiche) come sinonimi o comunque termini sovrapponibili: indicano in realtà situazioni tra loro legate, ma non coincidenti. Inoltre attorno alla questione c’è un diffuso dibattito “sociolinguistico” che ha coinvolto tra gli altri Al Jazeera, il Guardian e Le Monde, e in cui rientrano riflessioni politiche o di altro tipo.

Migrante
Viene spesso usato come un termine “ombrello”. Secondo un glossario dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, un’organizzazione nata nel 1951 e che collabora strettamente con l’ONU, a livello internazionale non esiste una definizione universalmente riconosciuta del termine. Di solito si applica alle persone che decidono di spostarsi liberamente per ragioni di “convenienza personale” e senza l’intervento di un fattore esterno. Questo termine si applica quindi a persone che si spostano in un altro paese o in un’altra regione allo scopo di migliorare le loro condizioni materiali e sociali, le loro prospettive future e quelle delle loro famiglie.

Migrante regolare e migrante irregolare
Un migrante è considerato regolare se risiede in un paese con regolare permesso di soggiorno, rilasciato dall’autorità competente; è irregolare invece se è entrato in un paese evitando i controlli di frontiera, oppure se è entrato regolarmente – per esempio con un visto turistico – ma è rimasto in quel paese anche dopo la scadenza del visto, o ancora se non ha lasciato il paese di arrivo dopo l’ordine di allontanamento.

Clandestino
Il clandestino è un migrante irregolare. In Italia si è considerati “clandestini” quando, pur avendo ricevuto un ordine di espulsione, si rimane nel paese. Dal 2009 in Italia la clandestinità è un reato penale. Nell’aprile del 2014 la Camera aveva approvato una legge sulle pene detentive non carcerarie e il sistema sanzionatorio che prevedeva anche l’abolizione del reato di clandestinità relativamente al primo ingresso irregolare in Italia. La legge delegava il governo a adottare una serie di decreti attuativi per rendere effettiva l’applicazione della legge, entro 18 mesi dalla sua entrata in vigore: i decreti non sono stati ancora emanati.

Rifugiato
Rifugiato non è un sinonimo di migrante perché ha un significato giuridico preciso. Nel diritto internazionale, “rifugiato” è lo status giuridicamente riconosciuto di una persona che ha lasciato il proprio paese e ha trovato rifugio in un paese terzo. La sua condizione è stata definita dalla Convenzione di Ginevra (relativa allo status dei rifugiati, appunto), firmata nel 1951 e ratificata da 145 stati membri delle Nazioni Unite. L’Italia ha accolto tale definizione nella legge numero 722 del 1954.

La Convenzione di Ginevra dice che il rifugiato è una persona che «nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato».

Il rifugiato è anche una persona che «essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi».

Lo status di rifugiato – visto che non è una condizione “esistenziale”, per così dire, ma giuridica – può essere “perso” se la persona ha volontariamente richiesto la protezione dello stato di cui possiede la cittadinanza; se ha volontariamente riacquistato la cittadinanza persa; se ha acquistato una nuova cittadinanza e gode della protezione dello stato di cui ha acquistato la cittadinanza; se è volontariamente tornata e si è domiciliata nel paese che aveva lasciato o in cui non era più andata per paura di essere perseguitata; se, «cessate le circostanze in base alle quali è stata riconosciuta come rifugiato, essa non può continuare a rifiutare di domandare la protezione dello Stato di cui ha la cittadinanza»: se, in pratica, la situazione nel suo paese è cambiata in meglio.

Richiedente asilo
Di questa categoria fanno parte coloro che hanno lasciato il loro paese d’origine e hanno inoltrato una richiesta di asilo in un paese terzo, ma sono ancora in attesa di una decisione da parte delle autorità competenti riguardo al riconoscimento del loro status di rifugiati.

Profugo
Si tratta di una parola usata in modo generico che deriva dal verbo latino profugere, «cercare scampo», composto da pro e fugere (fuggire). Il dizionario Treccani aggiunge qualcosa:

«Il rifugiato è colui che ha lasciato il proprio Paese, per il ragionevole timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità e appartenenza politica e ha chiesto asilo e trovato rifugio in uno Stato straniero, mentre il profugo è colui che per diverse ragioni (guerra, povertà, fame, calamità naturali, ecc.) ha lasciato il proprio Paese ma non è nelle condizioni di chiedere la protezione internazionale».

Anche se di fatto i due termini vengono spesso sovrapposti, è lo status di rifugiato l’unico sancito e definito nel diritto internazionale.

Apolide
Secondo la Convenzione di New York del 1954, l’apolide è una persona che non ha la nazionalità di alcun paese. La nazionalità è il legame giuridico che garantisce a ogni persona il godimento dei propri diritti: l’apolide è dunque destinato all’invisibilità giuridica e può incontrare difficoltà ad accedere alle cure sanitarie e agli studi; non ha accesso all’assistenza sociale, né al mercato del lavoro; non ha libertà di movimento; non può sposarsi. Vive una situazione di perenne irregolarità e può, di conseguenza, essere soggetto a periodi di detenzione amministrativa e ordini di espulsione.

Sfollato
Viene considerato uno sfollato una persona che pur avendo abbandonato la propria casa a causa degli stessi motivi dei rifugiati, o a causa di eventi eccezionali (carestie, per esempio), non ha attraversato un confine internazionale. La maggior parte degli sfollati non riceve protezione o assistenza internazionale.

Beneficiario di protezione umanitaria 
Chi può ottenere una protezione umanitaria ma non è riconosciuto come rifugiato, perché non è vittima di persecuzione individuale nel suo paese ma ha comunque bisogno di protezione o assistenza: si tratta di una persona che se fosse rimpatriata potrebbe subire violenze o persecuzioni.

Il dibattito su queste parole
Il giornalista Barry Malone ha motivato la decisione di al Jazeera di non chiamare più “migranti” le persone che arrivano nei paesi europei attraversando il Mar Mediterraneo, poiché il termine esprime una distanza eccessiva e viene usato, in modo scorretto, per indicare persone che arrivano da paesi in guerra come Siria, Iraq e Libia e che sono in realtà dei “rifugiati”. A differenza del rifugiato, un migrante non è insomma un perseguitato nel proprio paese e, secondo la definizione maggiormente diffusa, può fare ritorno a casa in condizioni di sicurezza.

Una riflessione simile è stata fatta qualche tempo fa dal giornalista Mark Memmott sul sito di NPR, la rete delle radio nazionali statunitensi. Memmott, però, è arrivato a una conclusione opposta a quella di al Jazeera dicendo che tutti i rifugiati sono migranti, ma che non tutti i migranti sono rifugiati. L’UNHCR usa entrambe le parole, rifugiati e migranti, dicendo per esempio che «nel 2015, 292.000 rifugiati e migranti sono arrivati ​​via mare in Europa». L’uso dei due termini viene scelto anche da altre organizzazioni come Amnesty International o Human Rights Watch.

Sul Guardian viene invece messa in discussione la distinzione tra “expatriate” (letteralmente “espatriato”, in italiano, cioè emigrato) e immigrato: il primo termine (nonostante la definizione che ne viene data, e cioè quella di una persona che si è recata all’estero) viene riservato esclusivamente «ai bianchi occidentali che vanno a lavorare all’estero» mentre «gli africani sono immigrati. Gli arabi sono immigrati. Gli asiatici sono immigrati». Le due parole vengono cioè caricate, spesso implicitamente, di un significato razzista: se un bianco va a vivere all’estero è un expat, se la stessa cosa la fa un nero è un immigrato.

  • Dispositivo dell’art. 10 Costituzione Italiana da Brocardi.it:

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (1). La condizione giuridica dello straniero (2) è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali [prel. 16; c.p. 3 ss.]. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo (3) (4) nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge [c.p. 215, 235, 312]. Non è ammessa l’estradizione dello straniero (3) per reati politici [26; c.p. 8, 13].

Note:
(1) Il primo comma dell’articolo esprime la volontà della Repubblica di aprirsi alla comunità internazionale, impegnandosi a produrre, nel proprio ordinamento interno, disposizioni in tutto coincidenti con le norme internazionali riconosciute dalla comunità degli Stati. Alla luce di quanto dispone adesso il primo comma dell’art. 117 Cost., così come interpretato dalla L. 131/2003, la legislazione statale e regionale deve uniformarsi alle norme internazionali generalmente riconosciute e a quelle derivanti dai trattati internazionali. In ogni caso, la Corte Costituzionale [v. 134] ha affermato che, qualora insorgano conflitti fra norme internazionali e costituzionali, l’interprete deve procedere alla loro armonizzazione, tenendo conto che: — il diritto internazionale preesistente alla Costituzione prevale su di essa, in quanto regola fattispecie, situazioni e interessi che si pongono come speciali rispetto alle norme interne (sentenza n. 48 del 1979); — il diritto internazionale successivo non può mai intaccare i principi fondamentali del nostro ordinamento, cioè quei principi che danno forma al nostro ordinamento costituzionale e non possono essere alterati in nessun caso (eguaglianza, rispetto della dignità dell’uomo, riconoscimento dei suoi diritti inviolabili).

(2) La condizione giuridica dello straniero residente in Italia è protetta dalla previsione di una riserva rafforzata di legge: il trattamento giuridico a cui viene sottoposto non viene lasciato all’arbitrio della pubblica amministrazione, ma può essere fissato soltanto dalla legge e non può essere meno favorevole di quanto previsto nelle norme di diritto internazionale, sia consuetudinarie, sia pattizie. Ciò non esclude che il legislatore italiano possa sopravanzare il diritto internazionale nel predisporre un trattamento più favorevole, ponendosi, così, a modello di riferimento per la comunità internazionale. Attualmente esistono nel nostro ordinamento due categorie di stranieri: — i cittadini dell’Unione europea, che godono di una tutela particolarmente qualificata e tendenzialmente assimilabile a quella riconosciuta agli italiani; — i cittadini non appartenenti all’Unione europea (cd. extracomunitari), che possono, invece, essere soggetti a restrizioni relativamente al loro diritto d’ingresso, di soggiorno e di permanenza nel nostro territorio.

(3) Gli ultimi due commi costituiscono la proiezione sul piano internazionale dei valori affermati dalla Costituzione nell’ambito interno. Dopo aver delineato un ordinamento costituzionale fondato sulla libertà e la giustizia, i Costituenti vollero affermare l’universalità di tale modello, riconoscendo a chiunque non abbia l’opportunità di vivere in uno Stato retto dagli stessi principi, il diritto di rifugiarsi in Italia e di non essere estradato qualora abbia commesso reati politici contro un regime illiberale. L’interpretazione unitaria dei due commi spinge a qualificare come reati politici quei comportamenti che esprimano opposizione a regimi non democratici o rappresentino l’esercizio di diritti e libertà negate da quegli ordinamenti. Escludendo l’estradizione per questo tipo di reati, il nostro Paese, in ossequio alle Convenzioni internazionali sottoscritte a tutela dei diritti dell’uomo, tende a restringere la potestà repressiva dello Stato estero per tutelare la persona dello straniero. Un altro orientamento, tuttavia, ricava la nozione di reato politico dall’articolo 8 del codice penale del 1930, che definisce tale ogni delitto che offenda un interesse politico dello Stato o un diritto politico del cittadino ovvero, che sia determinato, in tutto o in parte, da motivi politici. La ratio di tale norma è rinvenibile nel periodo storico in cui essa è stata concepita; il regime fascista (in carica all’epoca della stesura del codice penale attualmente in vigore), come tutti gli ordinamenti dittatoriali, considerava una minaccia lo svolgimento di attività politica al di fuori dei propri canali e, pertanto, aveva concepito una definizione così ampia al fine di attribuirsi la competenza a giudicare ogni atto, anche se compiuto all’estero, che considerasse pericoloso per la propria sussistenza. Si tratta, come detto, di una definizione ipertrofica ed applicarla alla norma in esame finirebbe per stravolgerne lo spirito, escludendo l’estradizione anche per lo straniero che abbia compiuto crimini contro l’umanità o atti di terrorismo contro uno Stato democratico. Per evitare tale assurda conseguenza, peraltro, nel 1967 una legge costituzionale [v. 138] escluse dal novero dei reati politici il delitto di genocidio, per il quale è oggi ammessa l’estradizione sia dello straniero, che del cittadino (v. 26).

(4) Sul piano internazionale, è indispensabile richiamare la Convenzione sullo status dei rifugiati, siglata a Ginevra il 28 luglio 1951 e ratificata dall’Italia con L. 24 luglio 1954, n. 722, e il Protocollo relativo allo status di rifugiati, adottato a New York il 31 gennaio 1967 e ratificato dall’Italia con L. 14 febbraio 1970, n. 95. La partecipazione del nostro Paese ad entrambi gli atti, lo rende destinatario del sistema di garanzia e tutela dei rifugiati in essi contenuto. Sia la Convenzione che il Protocollo sono richiamati nell’art. 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a conferma dell’importanza che il diritto di asilo riveste a livello nazionale, comunitario e internazionale.

  • Da Enciclopedia Treccani online, Cittadinanza di Raffaele Romanelli:

Intendiamo con ‘cittadinanza’ la condizione di appartenenza di un individuo a una unità politica territoriale generalmente identificata con lo Stato. Tra le tante possibili, è questa la definizione che ci pare meglio rispondente, oltre che alla dottrina, anche al linguaggio comune quando, per esempio, diciamo: “Costei – o costui – è cittadina/o italiana/o”. Senonché il nesso tra individuo e Stato, attorno al quale si fa ruotare il concetto di cittadinanza, è storicamente assai relativo, e infatti viene comunemente descritto secondo le diverse configurazioni che esso assume nelle varie epoche e civiltà, dalla polis greca, alla Repubblica romana e all’Impero, attraverso il Medioevo, i regimi cittadini e le signorie, fino al cosiddetto Stato moderno e poi allo Stato nazionale costituzionale.

Excursus storici 
In effetti, tali excursus nella complessa trama di diverse cittadinanze – che per noi contemporanei finiscono coll’avere interesse meramente storiografico – sono per varie ragioni altamente significativi. Innanzi tutto perché sottolineano un aspetto importante del nostro lemma, e cioè il fatto che la cittadinanza è concetto che va pensato tutto all’interno della vicenda storica europea; inoltre, perché offrono un patrimonio di tipologie al quale la cittadinanza moderna attinge, pur definendosi complessivamente per contrasto rispetto a quelle esperienze passate.
Dalla Grecia antica alla ‘cittadinanza celeste’ del Medioevo. Così la polis greca offre il modello di una cittadinanza che non andando oltre la città-stato, si presenta come eminentemente comunitaria, ovvero una cittadinanza che insiste sull’appartenenza alla comunità e sulla partecipazione alle cariche pubbliche dei membri maschi di una cerchia ben definita di famiglie di possidenti o di guerrieri che governano su una maggioranza di schiavi, di donne e di residenti privi di cittadinanza. A Roma, in particolare dopo che fu estesa a tutti gli abitanti liberi dell’Impero, la cittadinanza diventa un’istituzione sempre più astratta, che affida la definizione dei diritti o dei doveri del cittadino ad altri requisiti, come l’appartenenza familiare, o il censo. La limitatezza dell’accesso allo status di cittadino nell’ambito della comunità presa in esame (sia la città-stato o l’Impero) e una diversa gradazione dei diritti o dei doveri inerenti a quello status si ritrovano anche nella cittadinanza medievale, nella quale dapprima ebbe influenza determinante l’appartenenza religiosa, ovvero la ‘cittadinanza celeste’ rispetto a quella politica e a quella civile, le quali poi gradualmente andarono riemergendo con l’affermarsi delle città e della civiltà urbana. Ma a quel punto la definizione dei diritti connessi alla condizione di cittadino e l’area sociale che così era individuata variano notevolmente da città a città, e i cittadini, formanti un ‘terzo stato’ a lato degli aristocratici e degli ecclesiastici, sono a loro volta distinti dagli stranieri o ospiti e dai residenti non cittadini.
Dalla cittadinanza premoderna alla cittadinanza moderna. Come già accennato, queste rapide annotazioni sono funzionali alla definizione della cittadinanza moderna, in quanto essa si distingue dalle forme precedenti così abbozzate. Se infatti la cittadinanza ‘premoderna’ non riguarda la totalità della popolazione fisica che vive in un dato territorio, ma solo una sua porzione determinata, e se lo stato di cittadino è conferito ai singoli, o spetta loro, in virtù di collocazioni ora economiche, ora storiche, ora religiose e ora di ceto, e se per di più ciò avviene secondo differenze e gradazioni riguardo all’ampiezza dei diritti e delle potestà, ecco che la cittadinanza moderna si presenta, all’opposto, come universale, nel senso che riguarda tutti nell’ambito dello Stato e non ha gradazioni formali: raggiunge tutti indistintamente gli individui e gli individui soltanto.
Cittadini e Stato moderno. In sostanza, la cittadinanza riflette la costruzione della forma politica nuova, lo Stato moderno, del quale segue il processo formativo e le interne differenziazioni. Ma accanto allo Stato moderno abbiamo nominato anche lo Stato costituzionale: le due costruzioni si susseguono e si integrano nel conferire la cittadinanza. Nella prima – il moderno Stato assoluto, o Stato amministrativo, che si dispiega tra XVI e XVIII secolo, ma prolunga i suoi effetti fino al XX – il ‘cittadino’ si configura più che altro come suddito, come subietto titolare di doveri; mentre nel secondo, che si afferma non prima del secolo XIX, il cittadino si contraddistingue piuttosto per la partecipazione alla cosa pubblica, o meglio per il suo espresso diritto a partecipare alla cosa pubblica in forme universali e certe. Benché esistano momenti e fasi storiche che aiutano a fissarne il trapasso – il consolidamento dell’assolutismo monarchico e della monarchia amministrativa, la Rivoluzione inglese, la Rivoluzione americana e quella francese – il processo è però graduale, intreccia in maniera complessa le due dimensioni accennate (quella della sudditanza e quella della partecipazione), ed è soggetto a continue ridefinizioni, sia formali sia concettuali, essendo la cittadinanza uno di quei concetti che molto devono alla dottrina.
Possiamo, per esempio, riferire agli scritti di Jean Bodin, o di Thomas Hobbes, la formulazione concettuale di quell’unificazione della cittadinanza che segna il superamento della frammentazione medievale: Bodin definisce, infatti, il cittadino come uomo libero, soggetto al potere supremo di un altro, mentre Hobbes considera il cittadino come suddito sottoposto alle leggi di un solo potere sovrano. Con John Locke si ha invece l’affermazione di un naturale diritto di ciascuno a difendere la propria vita, la propria libertà, e con esse i propri averi. Un diritto che è alla base dell’organizzazione sociale e politica e, dunque, di un nuovo concetto di cittadinanza alla quale contribuiranno, con apporti diversamente orientati e intrecciati col tumultuoso procedere degli eventi rivoluzionari di fine Settecento, Jean-Jacques Rousseau, che mette l’accento sulla coscienza degli interessi comuni e massimamente su quello di impedire le disegugalianze, e ancora Diderot e Sieyès, ispiratori del particolare concetto di sovranità popolare che, insieme ai diritti lockiani, si ritrova nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789.

La cittadinanza moderna 
La cittadinaza moderna si afferma, dunque, per successive stratificazioni e nel vivo della vicenda storica. Nonostante la sua ispirazione sostanzialmente unitaria ed egualitaria (la cittadinanza, lo ripetiamo, riguarda tutti, e tutti indistintamente) se ne possono allora cogliere separatamente i vari aspetti. Come concetto prevalentemente giuridico, la cittadinanza odierna può esser vista come una serie di situazioni, di doveri e di diritti di cui i singoli godono all’interno di un ordinamento statale definito. È questa dello Stato una dimensione da sottolineare ancora, per la sua centralità e a un tempo per la sua relatività storica, che tra l’altro lo vede oggetto di grave indebolimento al giorno d’oggi. Fatto sta che la cittadinanza è cittadinanza statale, non sub-statuale (cittadina, provinciale, o altro) e nemmeno superstatale. Tale forte identificazione della cittadinanza con lo Stato è del resto sottolineata dai documenti che universalmente danno all’individuo, con la cittadinanza, l’accesso ai diritti: la carta d’identità – si rifletta su questa espressione –, e più ancora il documento che è necessario per attraversare le frontiere, cioè il passaporto, la mancanza del quale, non a caso, definisce una delle condizioni più drammatiche e tormentate di non esistenza del soggetto moderno, quella dell’apolide, dell’uomo ‘senz’ombra’, ‘senza patria’. È un documento, il passaporto, che perciò stesso, oltre ad avere una funzione pratica e burocratica, assume una funzione altamente simbolica e identitaria, al pari della bandiera o dell’inno nazionali. Ecco allora che la patria, di cui il soggetto moderno è cittadino, non è tanto lo Stato quanto lo Stato nazionale, e dunque la nazione.
Cittadinanza e nazione. È un termine, la nazione, che definisce lo spazio – non solo fisico o giuridico, ma ideale e culturale – in cui i soggetti moderni si riconoscono e al quale non solo appartengono, ma sentono di appartenere, o vogliono appartenere. Si intende che in questa accezione viene in essere piuttosto l’antica dimensione ‘partecipativa’ della cittadinanza. L’appartenenza alla nazione – benché intesa come fenomeno ora culturale, volontaristico (la volontà di), ora ascrittivo (l’avere ascendenti comuni, dunque un fatto involontario, ma che può essere sentito come valore) – è, d’altra parte, sancita dall’ordinamento vigente come cittadinanza statale.
Acquisire la cittadinanza. Va detto allora che due sono i modi di acquistare la cittadinanza nella legislazione moderna, modi di antica matrice e altamente significativi di diverse nozioni di comunità nazionale e di differenti culture: attraverso lo ius loci (diritto del territorio), ovvero per essere nato sul territorio nazionale, o per ius sanguinis (diritto del sangue), ovvero per esser nato da genitori cittadini (o più spesso da padre cittadino), accezione quest’ultima prevalente nella legislazione italiana. Benché nella pratica dei vari Stati tali principi spesso si intreccino e si sovrappongano, essi rimangono tuttavia distinti e ispirano politiche radicalmente diverse di fronte ai grandi fenomeni migratori dell’Età contemporanea.
L’accezione sociologica della cittadinanza. Esiste, poi, anche un’accezione sociologica della cittadinanza, che mette in luce il profilo sociale, o socio-economico, dei moderni ‘cittadini’, identificati con i nuovi ceti sociali che emergono con lo sviluppo della società industriale a partire dalla seconda metà del Settecento. Questa società, con i suoi caratteri aperti ed espansivi – che in genere sono raffigurati nelle pretese universalistiche del ‘mercato’ e della ‘società civile’ – tende a coinvolgere senza distinzioni l’intero corpo sociale, la totalità degli individui; per questo finisce coll’incontrare e coll’identificarsi con la dimensione giuridico-statuale prima enunciata: tale cittadinanza sociale, in altre parole, fonda e giustifica l’universalità della cittadinanza legale.
Se sul piano giuridico-formale la cittadinanza può essere imposta o concessa a tutti con atto immediato, di imperio, non altrettanto avviene sul terreno economico-sociale; qui l’universalità è solamente una pretesa, forse una vocazione, di quella società, che non a caso è usualmente definita borghese, con termine che ci fa tornare alla matrice urbana della cittadinanza moderna e del ceto che l’incarna. L’etimologia di ‘borghese’ è infatti assai prossima a quelle di ‘cittadino’ e di ‘civile’, tutti termini che in origine indicano l’appartenenza alla città più che allo Stato, ovvero a un ambiente urbano-mercantile che è matrice del nuovo soggetto sociale, della sua cultura e delle sue pretese.

Le tre cittadinanze
Sottolineando l’intreccio delle diverse dimensioni, giuridiche, politiche e sociali, si viene a delineare una distinzione anche concettuale tra diverse cittadinanze, e più specificamente si evidenzia la tripartizione illustrata alla metà del secolo scorso dal sociologo ingleseThomas H. Marshall tra cittadinanza civile, cittadinanza politica e cittadinanza sociale. La cittadinanza civile è quella che sul piano delle leggi, e poi dei codici, garantisce ai singoli una serie di fondamentali diritti ‘lockiani’: di parola, di pensiero, di religione, di proprietà, ma anche ad avere giustizia equa, ciò che più apertamente riguarda il funzionamento degli apparati dello Stato e la collocazione del corpo giudiziario. La cittadinanza politica è quella propria dello Stato liberale-costituzionale, che garantisce ai singoli il diritto di partecipazione politica nelle forme del voto per l’elezione dei parlamenti nazionali e locali. La cittadinanza sociale garantisce il diritto a un certo grado di benessere, di istruzione, di assistenza sanitaria, di fruizione di servizi pubblici collettivi e in genere di condizioni di vita mediamente ‘civili’ secondo lo standard prevalente in un dato contesto storico-sociale, e in particolare nella civiltà industriale contemporanea.
Significato del contributo di Marshall. Il contributo di Marshall va tenuto presente non solo per la sua centralità nella discussione a venire, ma anche perché esso colloca le ‘tre cittadinanze’ in un ordine logico e cronologico tendenzialmente evolutivo, come altrettante tappe di una conquistata “piena appartenenza alla comunità”: l’elaborazione dottrinaria e istituzionale della cittadinanza civile collocandosi tra Sette e Ottocento, come primo fondamento della nuova ‘società civile’; la piena conquista della cittadinanza politica avvenendo invece nel corso dell’Ottocento e fino agli inizi del secolo successivo, con il raggiungimento del suffragio universale; e infine la formulazione della cittadinanza sociale ponendosi tra le prime declinazioni di fine Ottocento e lo sviluppo del moderno welfare state novecentesco. Così concepito, ecco che il concetto di cittadinanza indica la direzione di un processo storico a un tempo condiviso e auspicabile, quasi criterio necessario di ogni politica di modernizzazione e di fondazione della democrazia, che a sua volta appare come il regime politico paradigmatico della modernità (a maggior ragione alla fine del XX secolo e dopo la fine del comunismo).
La configurazione di una simile prospettiva, politica e concettuale, è tipica della fase storica in cui è stata enunciata, allorché – conclusasi la Seconda guerra mondiale con la schiacciante vittoria della democrazia euro-atlantica – i progetti di estensione al resto del mondo del nuovo paradigma civile suggerivano tali incisive schematizzazioni dell’intero processo storico occidentale, suddiviso in ‘stadi’ e tappe di un progressivo avvicinamento alla modernità.
Duratura validità dello schema. Passato mezzo secolo, questo schema resta tutt’ora efficace non solo perché appare l’unico condivisibile a livello planetario, ma anche perché bene si presta a segnalare le sue interne antinomie, e con esse i problemi che sta attraversando la cittadinanza. Infatti, nella tripartizione marshalliana gli attributi dei vari stadi si ‘accumulano’, arricchendo sempre di più la cittadinanza e delineando uno schema di gradazione che già di per sé frammenta l’unicità e la coerenza del concetto: insomma esistono appartenenze alla comunità di intensità diversa, e può darsi che nei vari casi un attributo sia più forte degli altri e che raggiunga diversamente i differenti ‘cittadini’.

La differenza di genere
Tra le molte antinomie che vengono alla luce, quella di genere è senz’altro la più appariscente, e oggetto di una riflessione lunga e complessa.
Non c’è dubbio che il titolare della cittadinanza civile sia l’individuo in quanto tale, non sessualmente differenziato. Ora però le strutture fondanti della civiltà individualistico-borghese che quel concetto sostiene, benché intendano liberarsi di ogni potenziale o effettiva attribuzione di ‘cittadinanza’ a soggetti diversi dall’individuo (siano gruppi corporati, associazioni, corpi territoriali, ceti, comunità ecc.), non rinunciano a mettere a loro fondamento un nucleo sociale superindividuale come la famiglia, all’interno della quale, dunque, i diritti di alcuni membri (donne, minori, servitori) appaiono per più versi indeboliti rispetto a quelli del cittadino maschio ‘capo di famiglia’.
Questa differenziazione, già operante all’interno della cittadinanza civile – si pensi per esempio alla necessità, per le donne sposate, di ottenere un’autorizzazione maritale per compiere atti economici – si ripercuote in maniera perfino più appariscente nella cittadinanza politica, giacché notoriamente le donne sono escluse dal diritto di suffragio per tutto l’Ottocento e ancora per buona parte del Novecento. Più complessa ancora, e assai meno lineare, appare poi la questione della differenza di genere nel caso della cittadinanza sociale, che in molti casi fa riferimento espresso al genere del soggetto, e anzi consiste nella maggior tutela riservata a uno dei due sessi – in questo caso alle donne – proprio per risarcire e sanare uno squilibrio strutturale che le penalizza.
La questione della differenza di genere – la più stigmatizzata, ma non certo l’unica – pone in maniera quasi schematica e più chiara il problema più generale di come l’universalità della cittadinanza affronti il problema delle disuguaglianze di fatto tra i singoli individui. Abbiamo prima suggerito che l’universalità sia più un’aspirazione che non una realtà dogmaticamente stabilita. Ma allora le accezioni dottrinarie e le diverse costruzioni politico-istituzionali si differenziano a seconda che siano orientate più a rispettare, o viceversa a modificare, gli squilibri e le differenze che corrono tra singoli soggetti cittadini. Ciò accade particolarmente riguardo alla terza delle tre cittadinanze prima enunciate, quella sociale: è in questo campo, infatti, che si dispiegano le politiche sociali che le danno corpo. Per ciò stesso, per la loro natura tutta ‘politica’ da misurarsi nei programmi di politica sociale, i diritti sociali secondo alcuni autori non appartengono alla cittadinanza, o almeno ne costituiscono un aspetto tutto particolare. Ma non è forse vero, sostengono altri, che proprio i diritti sociali consentono l’esercizio effettivo dei diritti civili e di quelli politici, e quindi ne sono una estrinsecazione ulteriore? Come si vede, torna in evidenza il rapporto della cittadinanza con lo Stato, giacché, come ha scritto Norberto Bobbio, i diritti civili sono rivolti contro lo Stato, mentre quelli politici consentono di esercitare un controllo sullo Stato e quelli sociali sono garantiti dallo Stato.

La cittadinanza europea
Le controversie dottrinarie e la complessità formale che accompagnano la nozione odierna di cittadinanza non finiscono certo qui, e anzi ne investono l’essenza ultima. Il nesso con lo Stato tende a farsi incerto, anche culturalmente: si perde per esempio la consapevolezza del rapporto che, nella cittadinanza, legherebbe i diritti ai doveri, mentre il rilievo della cittadinanza politica è fortemente smussato dal disinteresse per la politica e dalla mancanza di partecipazione, fenomeni ai quali i politologi trovano ragioni valide nella natura stessa degli ordinamenti moderni. Emergono, d’altro canto, cittadinanze “minori” – cioè sub-statuali – o ‘maggiori’, come è la cittadinanza europea. In questo senso non vi è dubbio che l’Unione Europea costituisca un esperimento istituzionale che sovverte, del concetto di cittadinanza, o perlomeno ne registra la crisi. Tale crisi segnala la perdita della moderna nozione di unità, e al contempo sembra in discussione la stessa centralità del soggetto individuo allorché, per esempio, alcuni diritti sono legati all’appartenenza a gruppi professionali – come nel cosiddetto mondo del lavoro – oppure etnici, o religiosi. La cittadinanza sembra tornare a essere uno spazio legale, sociale e discorsivo nel quale i più svariati individui si collocano in maniera diversa, soggetti di pretese, obblighi o privilegi diversi di difficile codificazione unitaria.

  • Ius soli, tutto quello che c’è da sapere di Flavia Amabile, pubblicato su La Stampa (13ottobre 2015):

Era una priorità del governo Renzi, come le unioni civili. Mentre quest’ultime rischiano di arenarsi per le divergenze interne nella maggioranza, la Camera oggi ha approvato in prima lettura il testo sulla “nuova” cittadinanza con 310 sì, 66 no e 83 astenuti (tra questi i deputati del M5S). Ora il ddl passa all’esame del Senato. Ecco tutto quello che c’è da sapere.

Lo Ius soli temperato
Saranno cittadini italiani per nascita i figli, nati nel territorio della Repubblica, di genitori stranieri almeno uno dei quali abbia un permesso di soggiorno Ue di lungo periodo. Servirà la dichiarazione di volontà di un genitore, o di chi ne esercita la responsabilità, all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore, entro il 18esimo anno. In assenza di questa dichiarazione potrà essere il diretto interessato a richiederla, entro il 20esimo anno. Altrimenti, per gli stranieri nati e residenti in Italia legalmente, senza interruzioni, fino a 18 anni, il termine per la dichiarazione di acquisto della cittadinanza sale a due anni dalla maggiore età. Il principio dello “ius soli” non si applicherà però ai cittadini europei, visto che il permesso di lungo periodo è previsto solo per gli Stati extra Ue.

Lo Ius culturale
Possono ottenere la cittadinanza anche i minori stranieri nati in Italia, o entrati entro il 12esimo anno, che abbiano frequentato regolarmente per almeno cinque anni uno o più cicli presso istituti del sistema nazionale di istruzione, o percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali. La frequenza del corso di istruzione primaria deve essere coronata dalla promozione. La richiesta spetta al genitore, cui è a sua volta richiesta la residenza legale, o all’interessato stesso, entro due anni dalla maggiore età.

Gli stranieri in Italia
Le nuove norme valgono anche per gli stranieri in possesso dei nuovi requisiti ma che abbiano superato, all’approvazione della legge, il limite di età dei 20 anni per farne richiesta per salvaguardare i diritti di chi è già arrivato da anni in Italia.

Come è cambiato il testo approvato.
Si è partiti da un testo che sintetizzava 24 proposte di legge depositate negli anni per modificare la legge 91/92 che prevede semplicemente lo ius sanguinis, in cui la cittadinanza viene solo trasmessa dai genitori ai figli. La discussione è stata molto accesa e ha portato a diversi cambiamenti che hanno limitato le possibilità di ottenere la cittadinanza. Nella prima versione della proposta la cittadinanza veniva concessa a chi aveva almeno uno dei genitori con la residenza legale senza interruzioni da almeno cinque anni prima della sua nascita.

  • Ius soli sportivo è legge, minori potranno essere tesserati come italiani. Ma nazionale ancora negata fino ai 18 anni di Lorenzo Vendemiale, pubblicato su IlFattoQuotidiano.it (11 febbraio 2016):

Finalmente italiani. Almeno nello sport: i minori stranieri nati o residenti in Italia da quando sono piccoli potranno essere tesserati nelle società sportive come qualsiasi altro cittadino del nostro Paese. Niente più lungaggini burocratiche, richieste di documenti o buchi normativi che in certi casi sfociano in assurde discriminazioni. Lo ius soli sportivo è legge ed entrerà in vigore il 16 febbraio. Ma avrà una portata limitata ai soli tesseramenti, dove già diverse federazioni avevano approvato norme interne. Senza risolvere il problema principale: quello della cittadinanza di tanti giovani azzurri, a cui viene negata la nazionale fino alla maggiore età.

Governo in ritardo. “Il provvedimento è giusto ma il governo arriva tardi, come spesso accade nel nostro Paese, su un tema in cui l’Italia è ferma al Medioevo”. A parlare a ilfattoquotidiano.it è Alberto Brasca, presidente della Federazione Pugilistica Italiana. La Fpi è una di quelle federazioni che si sono mosse autonomamente: nella boxe, infatti, da sempre non esistono differenze nel tesseramento fra italiani e stranieri, con la sola limitazione della partecipazione ai campionati italiani, in passato riservati ai possessori di cittadinanza. “Dal 2013 basta essere residenti in Italia da almeno due anni per partecipare ai campionati Elite”, racconta il presidente. “Il paletto temporale serve per evitare trucchi e fenomeni di ‘contrabbando’ di atleti, ma abbiamo voluto riconoscere i diritti dei nuovi italiani”. “Il nostro – prosegue – è uno sport tradizionalmente popolare e oggi nel popolo ci sono tanti immigrati e figli di stranieri. Le nostre palestre collocate nelle periferie sono luoghi di integrazione sociale, prima che fabbriche di campioni. Per questo abbiamo deciso di superare le barriere del passato”. Nella stessa direzione anche la Federazione Hockey prato (Fih), tra le prime a varare lo ius soli sportivo, e la Federazione di atletica leggera (Fidal). L’intervento del governo, dunque, segue soltanto una tendenza già in atto.

Cosa cambia. Il ddl prevede che i minori stranieri residenti in Italia almeno dal compimento del decimo anno d’età, possono essere tesserati con le stesse procedure degli italiani. Nel pugilato, dove la norma è già in vigore, la percentuale di cosiddetti “nuovi italiani” ai campionati nazionali è di circa il 10%, e sale al 20% tra i tesserati (dove però i cordoni sono ancora più lenti). “Qualcuno ha anche vinto il titolo a livello giovanile o femminile, ma non aspettatevi un’invasione”, spiega Branca. Ora riguarderà tutti gli sport: “Il provvedimento servirà ad aiutare le federazioni, perché il cambiamento spaventa e anche noi abbiamo incontrato l’opposizione di tanti conservatori che si dichiarano difensori dell’italianità. Come se al giorno d’oggi coincidesse ancora con il colore della pelle o la religione”. Nel calcio, ad esempio, a causa delle norme internazionali di contrasto alla tratta di minorenni – il tesseramento è difficile: “La Fifa – spiega Stefano Sartori dell’AssoCalciatori – non fa differenza tra un ragazzino trasferito dall’Africa per gli interessi dei cacciatori di talenti, e uno che è nato o vissuto in Italia da genitori stranieri e vuole giocare a pallone come i suoi coetanei”. Fino ad oggi, venivano chiesti documenti come il contratto lavorativo dei genitori e severe verifiche. “Complicazioni che spesso scoraggiavano i club”, aggiunge l’Aic, che invita comunque a non abbassare la guardia sul “trafficking” di bimbi calciatori.

Il sogno negato della nazionale. Adesso finalmente la situazione cambierà. Ma solo per i tesseramenti, non per la nazionale, per cui serve una vera legge sullo ius soli, non solo sportivo. In Germania la cittadinanza è riconosciuta ai bambini nati da genitori stranieri in possesso di permesso di soggiorno permanente; in Belgio, al compimento dei 12 anni se i genitori sono residenti da almeno dieci anni. E i risultati si vedono anche nello sport, con nazionali multietniche e vincenti. Da noi, invece, i nuovi italiani sono “apolidi” fino al compimento dei 18 anni. Una situazione diventata famosa per il caso di Mario Balotelli, ma che riguarda centinaia di adolescenti. “È assurdo che ragazzi cresciuti nelle nostre scuole o addirittura nati nel nostro Paese, che hanno tutto d’italiano, non possano andare in nazionale”, attacca Branca. “Così si perdono anche occasioni importanti: penso a un talento strepitoso di origini marocchine che abbiamo a Firenze, sta da noi da quando faceva le elementari e parla in fiorentino, ma ancora non riesce a prendere la cittadinanza e ha saltato gli Europei”. “Su questo però – conclude il numero uno della Fpi – le Federazioni non possono farci proprio nulla. Tocca al governo intervenire”. Come al solito in ritardo.

  • Flop Cirinnà, altre leggi a rischio: da ius soli a eutanasia di Francesca Buonfiglioli, pubblicato su Lettera 43 (26 febbraio 2016):

Reato di clandestinità, cancellazione congelata. La vicenda del reato di immigrazione clandestina non è materia di un singolo partito» ha sottolineato Alfano l’8 gennaio. «Sono consapevole che si sono levate voci molto autorevoli e rispettabili che affermano ragioni tecnicamente valide a sostegno di una abrogazione, ma motivi di opportunità fin troppo evidenti mi inducono a ribadire che è meglio non attuare la delega ed evitare di trasmettere all’opinione pubblica dei messaggi che sarebbero negativi per la percezione di sicurezza in un momento particolarissimo per l’Italia e l’Europa».
Dichiarazioni ribadite dal capogruppo Ap-Ncd alla Camera, Maurizio Lupi: «La nostra posizione è molto chiara, tanto più in un momento come questo, dopo quanto successo in Germania e le polemiche sull’immigrazione. È un segnale sbagliato quello di depenalizzare il reato di immigrazione clandestina».
Peccato che le indagini sui fatti di Colonia abbiano confermato che dei 59 immigrati sospettati di avere preso parte la notte di San Silvestro alle aggressioni nei confronti delle donne a Colonia, solo tre sono arrivati in Germania con la recente ondata migratoria. Gli altri sospettati, 13 dei quali arrestati, provengono dal Nord Africa, da Marocco, Algeria e Tunisia e sono in Germania da diversi anni.

Ius soli, «ancora qualcosa da ritoccare». Ma non è finita. Perché Alfano ha tirato il freno pure sullo Ius soli temperato, sul quale pareva essere giunto un accordo nella maggioranza. Il ddl sulla riforma della cittadinanza era stato infatti approvato alla Camera il 13 ottobre 2015 e ora è all’esame della commissione Affari costituzionali del Senato.
«Di sicuro la cittadinanza deve essere non solo desiderata. Ma anche meritata», ha dichiarato a La Stampa il ministro dell’Interno il 6 gennaio. «Ora nel passaggio al Senato vedremo se c’è ancora qualcosa da ritoccare».
Eppure Ncd e Sc avevano già strappato due emendamenti: i figli di stranieri nati in Italia potranno essere cittadini italiani se almeno uno dei due genitori è in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata e, se nati all’estero, devono aver concluso almeno un ciclo scolastico nel nostro Paese.
Un «compromesso al ribasso», aveva commentato Sel. «Quello che temiamo è che di compromesso in compromesso», aveva denunciato a settembre la deputata di Sinistra ecologia e libertà Celeste Costantino, «dall’Aula possa uscire una legge fortemente depotenziata. Non vorrei che a furia di dire che una legge è meglio di niente alla fine ci si possa ritrovare con delle leggi francamente insufficienti”.

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