Un diritto alla settimana: verso la Marcia per la Pace. Articolo 14


 Articolo 14

Diritto di asilo.

1. Ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.
2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite”.


Spunti di riflessione.

  • Commento del prof. Antonio Papisca, Cattedra UNESCO Diritti umani, democrazia e pace presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell’Università di Padova

L’articolo 10 della Costituzione italiana stabilisce a sua volta che “lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici”.

L’asilo politico è uno dei più antichi, e sacri, istituti di diritto consuetudinario. Nel medioevo Chiese e Conventi erano luoghi deputati ad accogliere e proteggere i perseguitati a causa della giustizia, beneficiando del privilegio di una sorta di extra-territorialità. Sono innumerevoli i casi di personaggi illustri che, nel corso dei secoli, sono andati in esilio e hanno fruito del diritto di asilo. Uno per tutti: Dante Alighieri.

Oggi, è lo stesso Diritto internazionale che obbliga gli stati a proteggere chi ha diritto all’asilo, innanzitutto il ‘rifugiato’ politico quale definito dall’articolo 1 della Convenzione internazionale sullo status dei rifugiati (Ginevra, 1951): una persona che a causa del fondato timore di essere perseguitata per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, o opinione politica, si trova fuori del paese di sua nazionalità ed è incapace o, a causa del timore, non vuole avvalersi della protezione del proprio paese; o anche chi, non avendo una nazionalità ed essendo fuori, per i motivi sopra indicati, del paese in cui aveva abituale residenza, è incapace o, a causa del timore, non vuole farvi ritorno.

Oltre alla suddetta Convenzione del 1951, esistono i seguenti strumenti giuridici internazionali: la Convenzione sulla riduzione della apolidia del 1954, il Protocollo relativo allo status dei rifugiati del 1966, la Dichiarazione sui diritti umani degli individui che non hanno la cittadinanza del paese in cui vivono del 1985. Utile anche il manuale del 1996 dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite su procedure e criteri per determinare lo status del rifugiato.

La materia dell’asilo politico è in continua evoluzione a causa dell’esponenziale aumento dei casi legati ai flussi migratori. Dal canto suo il Diritto internazionale riguardante la “protezione” del rifugiato cerca di migliore le procedure e di obbligare gli stati ad armonizzare sempre più le rispettive legislazioni interne con gli standards internazionali.
L’Unione Europea ha adottato nel 2004 una Direttiva che recepisce la definizione di ‘rifugiato’ della Convenzione del 1951 e prevede due separati ma complementari meccanismi di protezione a seconda che si tratti di ‘status di rifugiato’ o di ‘status di protezione sussidiaria’, nell’intento di allargare la tipologia delle persone aventi diritto alla protezione. La protezione sussidiaria, complementare rispetto al regime di protezione (primaria o generale) stabilito dalla citata Convenzione, interpella più specificamente della prima le norme del Diritto internazionale dei diritti umani, per esempio l’articolo 3 della Convenzione internazionale contro la tortura, l’articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, ecc. Questa Direttiva presenta aspetti innovativi ad esempio per quanto riguarda il soggetto agente della persecuzione politica, nel senso che questa soggettività criminogena comprende anche agenti non-statuali. Inoltre, gli stati membri dell’UE sono obbligati a non dare asilo a coloro che hanno perpetrato crimini contro l’umanità o altri reati particolarmente crudeli anche se per (presunti) obiettivi politici.

Lo status di ‘rifugiato’ viene riconosciuto in base all’accertamento dei requisiti stabiliti dalle Convenzioni internazionali, accertamento che deve avvenire con la massima accuratezza caso per caso, individuo per individuo. E’ pertanto rigorosamente vietato il refoulement (respingimento) collettivo. L’accertamento va eseguito nel rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali che ineriscono a ciascuno, a cominciare dal diritto alla vita e all’integrità fisica e psichica.

I paesi a regime dittatoriale o comunque autoritario sono grandi esportatori di ‘classici’ richiedenti asilo politico. Tanti altri paesi, compresi naturalmente i primi, sono esportatori di folle di persone che fuggono dalla miseria, dalle pandemie, dalla violenza quotidiana, dalle guerre, dai genocidi.

In Italia, arrivarono a ondate folle di richiedenti asilo politico prima dall’Ungheria (1955), poi dal Cile di Pinochet (inizio anni ’70), poi dai Balcani. In questi ultimi anni ci sono le folle che sbarcano sulle coste italiane. Tra di loro possono esserci, e di fatto ci sono, persone che hanno tutti i requisiti per ottenere lo status di rifugiato e beneficiare quindi della protezione internazionale. E gli “altri”? La ‘protezione sussidiaria’ è sollecitata ad allargare ancor di più la sfera della sua applicazione.”

  • Stralci da Lo “Schindler” italiano che salvò centinaia di vite in Argentina di Dario Pignotti, Vanity Fair (23 Aprile 2012)

 “… il diplomatico italiano Enrico Calamai, un eroe silenzioso che lavorava presso il Consolato di Buenos Aires durante la dittatura, e che rischiò la vita e la carriera per favorire la fuga di centinaia di dissidenti politici e di partito entrati nella lotta armata contro l’esperimento neonazista dei generali argentini.

“Non mi sono mai soffermato a contare le persone passate per il Consolato. In un programma RAI hanno detto che furono più di 400, sinceramente non so se il numero è giusto, non so quanti hanno ricevuto il nostro aiuto per poter uscire vivi dall’Argentina”.

La biografia di Calamai è quella di un diplomatico poco comune nell’ottobre argentino del 1976, quando l’arrivo al potere del generale Videla era ben visto dalla maggior parte delle ambasciate occidentali e festeggiato segretamente da quella brasiliana, come si evince dall’intensa attività di comunicazione generata dall’allora ambasciatore João Batista Pinheiro.

Sfidando il Piano Condor.

“Sapevamo che il Piano Condor era in corso, ancora non la conoscevamo con questo nome, ma avevamo informazioni sul fatto che i militari brasiliani e quelli argentini si erano coordinati per catturare chi fuggiva dalla mattanza a Buenos Aires, perciò presi la decisione di recarmi con due italo-argentini, Piero Carmelutti e Santiago Camarda, a Rio de Janeiro. Era rischioso che andassero soli. Fu durante il Carnevale del 1977”.

“Questi giovani restarono per un periodo nascosti nel Consolato, uno di loro aveva un’abilità manuale per la falsificazione dei documenti e ne fece alcuni che di autentico avevano solo le foto”.

“Lo fece col mio aiuto, usando alcuni timbri che gli diedi io, era un metodo non formale di fare documenti per uscire dal Paese, non avevamo l’appoggio delle istituzioni, facemmo tutto alle spalle dell’Ambasciata, che non mi appoggiava”.

“Non ho avuto neanche l’appoggio di un funzionario Alitalia a cui proposi di chiudere un occhio e di fornirci i biglietti diretti per Roma, ma lui si rifiutò scandalizzato. Finalmente riuscimmo ad avere i biglietti aerei diretti grazie al rappresentante della Varig [all’epoca la maggiore compagnia aerea brasiliana, NdT] in Argentina, un italo-brasiliano robusto e cordiale”.

“La nostra priorità era di evitare che fossero interrogati a Rio de Janeiro, perché probabilmente là ci sarebbe stato qualcuno dei servizi segreti militari, e la mia funzione era di restare con loro per far valere la mia condizione di diplomatico e denunciare un’eventuale cattura, come sarebbe accaduto nel 1980 all’italo-argentino Domingo Campiglia, preso proprio a Rio de Janeiro”, racconta Calamai col rigore proprio di uno storico.

“Non potevano restare a Buenos Aires, ma a loro volta dovevano attraversare i confini del Piano Condor a Rio, era l’unico modo per arrivare vivi in Italia”.

La resistenza alla dittatura era stata spezzata militarmente nel 1977, un anno di intenso scambio tra i servizi segreti dei dittatori Ernesto Geisel [generale dell’esercito e presidente del Brasile dal ‘74 al ‘79, NdT] e Jorge Videla.

Alcuni documenti cui ha avuto accesso Carta Maior, con la data di quell’anno, confermano la priorità data da Brasilia alla localizzazione e alla cattura di “elementi Montoneros e appartenenti all’ ERP (Exército Revolucionário do Povo)” da consegnare a Buenos Aires.

Gli apparati repressivi lavoravano in notevole sintonia. Tanto che i servizi segreti brasiliani ricevevano informazioni sulle attività della resistenza argentina in Italia.

Nella documentazione, finora rimasta segreta e avuta da Carta Maior, c’è un fascicolo dello Stato Maggiore dell’Esercito brasiliano creato in Italia nel giugno del 1978 che ha per titolo “Movimento Peronista Montonero all’estero, azione, contatti, collegamenti con gruppi terroristici, precedenti”.

Cospirazione diplomatica.
Le centinaia di argentini sfuggiti al genocidio grazie al lavoro di Calamai non gli sono molto serviti a un’avanzamento nella carriera diplomatica, dato che dopo aver lavorato 5 anni in Argentina, una destinazione considerata relativamente importante, gli fu data una destinazione considerata di poco peso: il Nepal.

Diversa la sorte dell’ambasciatore brasiliano João Batista Pinheiro, il quale, dopo i suoi buoni uffici in favore della Giunta Militare argentina, fu promosso capo della missione diplomatica a Washington.

Poco dopo il crollo del governo civile argentino, Pinheiro si impegnò affinché Geisel mandasse, nell’aprile del 1977, un rappresentante a Buenos Aires, gesto cruciale per Videla che temeva l’isolamento diplomatico del quale soffriva il collega cileno Augusto Pinochet.

“Finora non si è studiato a fondo come agirono i servizi diplomatici in generale nei confronti della dittatura” afferma Calamai durante il colloquio con Carta Maior, a Roma.

E aggiunge: “non parlo solo dell’Italia, mi riferisco alla maggioranza dei paesi occidentali che furono completamente omissivi sulle violazioni dei diritti umani in Argentina”.

Come nei patti tra mafiosi, la maggior parte dei diplomatici di stanza a Buenos Aires, tranne quelli dell’ambasciata del Messico dove l’ex presidente democratico Héctor Campora ricevette rifugio per anni, scelsero di ignorare.

“In modo diretto o indiretto le maggiori ambasciate, incluse quelle qui in Italia, e logicamente anche quella del Brasile, sebbene io non abbia notizie concrete, furono informate del fatto che ci sarebbe stato un colpo di stato”.

“Queste informazioni sull’imminente crollo del governo civile erano anche un modo di avvertire che (i generali argentini) non avrebbero accettato che le ambasciate ricevessero rifugiati, come avevano fatto la nostra e altre ambasciate dopo il golpe in Cile. E quasi tutti i paesi che ricevettero l’avviso dai militari argentini, per quello che ho visto, capirono il messaggio e lo accettarono”.

“Ora con il passare del tempo capisco che intorno al Piano Condor c’era una collaborazione stretta tra le ambasciate e i militari argentini, e tra le ambasciate e i loro addetti militari. La diplomazia è qualcosa di molto vicino al potere, e lo è stato durante le dittature, i diplomatici sanno che se si oppongono al potere verranno emarginati o tagliati fuori. All’epoca era un rischio reale”.

Santa complicità
Prima dell’intervista, Calamai ci mostra l’Antico Caffé del Brasile, a pochi metri da casa sua: “Giovanni Paolo II, prima di diventare papa, quando era ancora seminarista, veniva abitualmente in questo caffé, è un posto semplice come può vedere”.

I funerali di Giovanni Paolo I, il predecessore del papa polacco che frequentava il quartiere di Calamai, furono un pretesto per stringere le relazioni tra il Vaticano e Videla, che era uno dei capi di stato invitati. La gestione del viaggio di Videla e del suo incontro con l’allora Primo Ministro italiano, furono realizzate dalla loggia massonica Propaganda Due (P2) secondo quanto afferma un libro pubblicato quest’anno dall’Università Roma Tre.

“La loggia P2 si muoveva come un potere occulto e godeva di una notevole influenza negli affari esteri e nel Vaticano, e uno dei suoi principali esponenti, Licio Gelli, manteneva buoni rapporti con la Chiesa”.

“Il Vaticano fu molto vicino al regime argentino, non solo perché corrispondeva al suo anticomunismo, ma perché contribuiva alla decisione di Roma di farla finita con la teologia della liberazione in America Latina. Si diceva che il nunzio apostolico giocasse a tennis con l’ammiraglio Emilio Massera”, uno dei membri della Giunta a cui spettava il controllo del Ministero degli Esteri argentino.

“Ma è necessario ricordare anche che i motivi ideologici che portarono il Vaticano ad appoggiare i militari erano altrettanto importanti degli interessi economici delle imprese legate alla Chiesa e che erano radicate in Argentina”.

Queste ragioni contribuirono a spiegare, secondo Calamai, perché lo Stato Vaticano per anni non si preoccupòo’ di denunciare il genocidio argentino e negò aiuto ai familiari dei desaparecidos e dei prigionieri.

“Esistono molte cose che ho dimenticato, ma quello che ricordo è che, parlando con diplomatici di altri paesi delle violazioni dei diritti umani, praticamente tutti dicevano che nessuno andava alla Nunziatura apostolica perché non veniva ricevuto”.

  • Intervento di Piero Terracina, unico sopravvissuto della sua famiglia alla deportazione a Auschwitz, al convegno Il peccato dell’indifferenza, 28 maggio 2015 al Senato, con la partecipazione del suo presidente, Pietro Grasso.

Buon pomeriggio a tutti e grazie per questo invito, per me davvero importante.
Come mi ha scritto il promotore di questa iniziativa il senatore Luigi Manconi nello scambio di corrispondenza epistolare dei giorni scorsi, questo nostro incontro vuole essere una lezione morale. Le mie saranno solo riflessioni, riflessioni morali, insomma quello che faccio ormai da oltre vent’ anni.
Cercherò di fare un parallelo tra migranti di ieri e migranti di oggi, tra violenza di ieri e violenza di oggi, perché credo che la memoria debba servire a questo, a costruire INSIEME una società migliore, in cui vivere e convivere tutti. In pace.

E voglio iniziare da un fatto che non molti conoscono, anche se è stato scritto un bel libro di Sinouè Gilbert, Una nave per l’inferno, edito in Italia nel 2005, che racconta la storia di circa mille ebrei tedeschi — uomini, donne e bambini – che, nel 1939, poterono lasciare, per mare, la Germania di Hitler. S’imbarcarono sulla St. Louis, un transatlantico tedesco, con al comando il capitano Gustav Schróder, diretto a La Havana. La storia della St. Luis era già stata raccontata in un film del 1976.
La nave salpò da Amiburgo il 13 maggio 1939. I suoi viaggiatori, tutti muniti di visto, speravano di soggiornare a Cuba prima di ricevere il permesso d’entrata negli Stati Uniti. Ma né il governo cubano, o statunitense, o canadese e neppure quelli dei diversi paesi dell’America latina accolsero i profughi.

A Cuba era stato stabilito che le persone richiedenti il visto dovevano essere suddivise in due categorie: i turisti e i rifugiati. Ai rifugiati, tra l’altro, era richiesto, per ottenere il visto, un ulteriore pagamento di 500 dollari; cifra davvero notevole allora, che pochi possedevano anche perché si trattava di intere famiglie e la cifra andava moltiplicata per i componenti.
Non si sapeva bene come definire i circa mille ebrei che erano arrivati dalla Germania; per agevolarli, le autorità cercarono di farli passare come turisti; ma anche con questo espediente non ottennero il visto e su mille solamente in 29 riuscirono a sbarcare a Cuba.
E gli altri? I rifugiati non avrebbero potuto entrare legalmente con il visto turistico ottenuto a Cuba negli Stati Uniti, perché non disponevano di un indirizzo a cui fare ritorno, e inoltre gli Stati Uniti dal 1924 si attenevano ad un sistema per l’immigrazione. Le autorità statunitensi cercarono di persuadere Cuba ad accettare i rifugiati; ma non fecero nulla per agevolare il loro arrivo, pur essendo a conoscenza delle condizioni e dei rischi in cui, all’epoca, vivevano gli ebrei in Germania.

Il capitano Gustav Schroder, comandante della nave, era un tedesco non ebreo e anti nazista che fece di tutto per assicurare un trattamento dignitoso ai suoi passeggeri. Volle assicurare servizi religiosi ebraici e ordinò al suo equipaggio di trattare i rifugiati come qualsiasi altro normale passeggero in crociera. Con il precipitare degli eventi il capitano cercò di portare i rifugiati in un posto sicuro, valutando persino di incagliare la nave sulla costa britannica per forzare la Gran Bretagna ad accogliere i passeggeri come naufraghi. Rifutò inoltre di restituire la nave alla Germania sino a che i passeggeri non fossero entrati in qualche altro paese.
La nave fece ritorno in Europa e attraccò ad Anversa, in Belgio. Alcuni rimasero lì; altri, invece, furono accolti in Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi. Sembrò quindi che essi fossero stati posti in salvo dalle persecuzioni.

Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale e l’occupazione da parte delle truppe tedesche della Francia, del Belgio e dei Paesi Bassi, purtroppo molti di loro furono deportati dalle SS, soprattutto ad Auschwitz e a Sobibor. Quelli che riuscirono a salvarsi rifugiandosi in Inghilterra o scampando allo sterminio testimoniarono a favore del comandante della nave.
Alla fine della guerra il capitano Schróder fu insignito dell’ Ordine al Merito di Germania. Nel 1993 fu nominato come Giusto tra le nazioni come riconoscimento per il suo eroismo per aver cercato riparo per i suoi passeggeri.

Ora, quale confronto è lecito trai respingimenti e le stragi che accadono sotto i nostri occhi e la persecuzione degli ebrei?
Quale confronto è lecito tra i morti del Mediterraneo e gli ebrei che nel 1939 non furono accolti nè da da Cuba né da altri?
Le situazioni sono, indubbiamente, molto diverse. Ma non voglio occuparmi, in quest’occasione, dell’unicità di Auschwitz. Anzi, vorrei trovare dei punti in comune sulla violenza di oggi e di ieri che meglio ci aiuti a comprendere la natura dell’uomo e, magari, a farci i conti.
Tra quello che io guardo oggi in televisione – dalla mia casa – e quello che io ho vissuto e subito più di 70 anni fa, vedo, pur con tutte le differenze del caso, dei punti in comune. E questi sono l’indifferenza della maggioranza e l’incapacità delle Istituzioni di tutelare il più debole.

E’ la stessa indifferenza di quando furono emanate nel nostro Paese le leggi razziali, che chiamerei razziste. Io allora avevo nove anni. Una mattina andai a scuola e la maestra mi cacciò via. Perché? Chiesi. Perché sei ebreo, mi rispose. Tornai a casa piangendo, disperato. Si può essere disperati a soli nove anni? Io questo lo posso raccontare. La mamma, a noi quattro figli che andavamo tutti a scuola, ci diceva sempre di studiare, ci teneva a farci fare sempre i compiti perché, diceva, per riuscire nella vita dovevamo prima riuscire nello studio. E se non posso studiare che cosa faccio? Mi dissi, temendo che nella vita non avrei potuto combinare niente di buono.
E di tutti quegli amici che avevo a scuola, non se ne vide più uno. Neanche i loro genitori. Pochi anche i vicini di casa. Il fascismo aveva fatto bene la sua propaganda, “Mussolini ha sempre ragione” diceva Ia propaganda, e nessuno, o molto pochi, ci tesero una mano.

Quella stessa indifferenza la ritrovo oggi, anche se in una forma diversa.
Ma voglio essere più preciso. Non si tratta solamente di indifferenza, ma anche di ostilità. Di ignoranza. Di paura del “diverso”. Di disinteresse verso l’altro. E mi viene in mente il monito di Primo Levi “voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no”. E continua: “Meditate che questo è stato!”
Considerate voi se questi sono uomini: persone che scappano dalla guerra, dalla malattie, dalla fame, dalle persecuzioni. S’imbarcano, dopo aver pagato i loro “traghettatori” che mi ricordano tanto quelli che dall’Italia “aiutavano” gli ebrei a raggiungere la Svizzera, facendosi pagare lautamente e spesso tradendoli e consegnandoli ai nazi-fascisti come accadde, tra i tanti, a quella straordinaria testimone della Shoah che è Liliana Segre, e iniziano un viaggio in mare drammatico. Che dura giorni. Senza cibo. Con poca acqua e molta paura. Con la probabilità di finire in pasto ai pesci. Chissà che cosa si prova in quelle condizioni! io non lo so;
ma mi vengono in mente i racconti del mio amico-fratello Samuele Modiano che conobbi ad Auschwitz. Io avevo 15 anni, lui 13. Sami, un viaggio lungo e drammatico in mare rinchiuso nella stiva lo fece, perché è nato a Rodi e gli ebrei del Dodecaneso furono deportati per mare. I suoi ricordi sono drammatici. E drammatiche sono le condizioni di questi nuovi “disperati”.

Ma ancora, mi chiedo. Considerate se questo è un uomo… E lo dico rivolto a noi stessi. Le vite degli italiani sono colpite dalla crisi, dai problemi quotidiani, dai lavoro e temono che i figli non abbiano futuro se restano qui.
Ma quanti sono effettivamente toccati da quello che sta accaendo? E quanti si adoperano per dare il proprio contributo? Quando vado nelle scuole, dico sempre
ai ragazzi che, almeno secondo me, libertà vuol dire ragionare con la propria testa e partecipare. Vivere, agire e interagire nel mondo in cui si vive. E quanto stiamo interagendo? Poco. Perché se lo facessimo ci sarebbe davvero quell’incontro di culture che migliora, arricchisce gli uomini. Non mi stancherò mai di ripetere quanto provato scientificamente: “che siamo tutti uguali”. Che il confronto con l’altro, con il cosiddetto “diverso” è un’esperienza necessaria sia per migliorare noi stessi sia per vivere con gli altri.
L’incontro con altre culture porta ad un arricchimento reciproco di idee, di valori e di esperienze.
La storia si ripete e si sono accumulate sotto i nostri occhi le immagini di altri genocidi, altri iager, altri massacri, dalla pulizia etnica in Kosovo, agli eccidi in Ruanda, dall’uso dei gas contro i curdi in Iraq ai respingimenti nel Mediterraneo. Tutto è qui vicino a noi, a volte troppo vicino a noi, per dirci e ricordarci che non sempre la storia insegna a evitare il ripetersi di ciò che è stato, che non basta ricordare il passato. Né si può cedere all’alternativa terribile di ritenere che la Shoah sia destinata a far parte dell’elenco indicibile dei genocidi, tragica eventualità sempre presente nei geni della modernità, impossibile da evitare come una tara che fa parte dell’uomo.

Ignorare la memoria delle violenze perpetrate dal Nazismo e dal Fascismo significa facilitare la giustificazione delle violenze odierne in nome dello “stato di emergenza”, della “guerra al terrorismo” o della “crisi economica” e favorire il silenzio e l’indifferenza verso chi oggi chiede asilo e riparo da ingiustizie e discriminazioni. Ha senso dunque che io prenda la parola su questi temi come persona che è stata in fuga per dare voce a chi è attualmente in fuga. Come ho raccontato vivevo nascosto in una cantina a Monteverde nel periodo dell’occupazione tedesca, prima di essere denunciato dai fascisti italiani, consegnato alle SS e deportato.
A quanto sembra, gli arrivi dal mare di barche di richiedenti asilo non sono un effetto dell’operazione Mare Nostrum. Gli sbarchi sono proseguiti anche nella brutta stagione. Avvenivano prima, sono avvenuti dopo e avvengono ora. Le polemiche, esterne e interne, erano pretestuose. Sono avvenuti nuovi naufragi, la nostra Marina militare, di fronte agli SOS delle barche in pericolo, è intervenuta anche al di là dei limiti territoriali fissati e ha subito attacchi per aver salvato naufraghi al di fuori della zona di competenza. E anche i nostri pescherecci, i cui equipaggi sono tanto più meritevoli, accorrono dove ci sono persone in pericolo. Il nostro Paese sta facendo la sua parte. Ci sta provando. Ma l’Europa? Pochi rispondono al bisogno urgente d’aiuto e collaborazione. Alcuni politici parlano di “tsunami umano”, di esodo biblico, di rapporti dei servizi segreti che annunciano centinaia di migliaia di profughi pronti a partire.

Ora in più c’è l’Isis, che caricherebbe a forza i profughi sulle barche per scagliarli contro l’Italia. Si dice di voler contrastare il traffico di esseri umani, ma in realtà si vogliono scongiurare gli arrivi dei rifugiati. E quando arrivano in Italia come sono accolti? Buttati in campi che tanto somigliano ai lager, certo, senza gli aguzzini e i carnefici. Emarginati. Guardati con disprezzo o, nella migliore delle ipotesi, con pietà. Se fossimo un paese pienamente civile, se la nostra Europa fosse civile, saremmo capaci di comprendere le tragedie che hanno alle spalle e inserirli con intelligenza nella nostra società. Dovremmo aiutarli per far loro mantenere costumi e tradizioni, sempre che non siano in contrasto con i diritti umani e le leggi del nostro Paese. Di non sfruttarli. Di non usarli come forza lavoro a basso prezzo; tra un po’ sarà estate, pensiamo a chi raccoglie i pomodori per pochi euro al giorno. Le autorità hanno il compito di sorvegliare che chi lavora non venga sfruttato con trattamento da schiavi.
In questi giorni si è saputo che qualcuno viene compensato con un euro l’ora per il lavoro nelle campagne e vive di conseguenza in stato di estremo degrado.
Ci lasciamo investire dai pregiudizi e dalle paure: “prendono il nostro lavoro”, “insidiano le nostre donne”, “bevono”, “si drogano”, “rubano”.

Chi di noi non ha mai sentito dire una di queste frasi sugli immigrati? E siamo sicuri che sia vero proprio per tutti? E’ di pochi giorni fa la notizia di un immigrato, senza permesso di soggiorno, che ha salvato una donna che stava annegando nel Tevere, rischiando la sua vita. E un fatto analogo è accaduto venerdì scorso a Firenze, dove un giovane marocchino, anche lui senza permesso di soggiorno, ha salvato una turista che era caduta nell’Arno rischiando, adesso che è stato riconosciuto come clandestino, l’espulsione dall’Italia. E siamo sicuri che gli italiani emigrati qualche decennio fa in Germania e in America non abbiano subito le stesse difficoltà e non abbiano mai avuto comportamenti spesso anche al dì fuori della legalità? Basta pensare alla mafia italiana in America per rendersene conto…

Che cosa si potrebbe fare allora, a patto beninteso di volerlo? Io soluzioni non ne ho, ma credo che bisognerebbe elaborare una vera politica europea: fatta di libertà di movimento per i rifugiati riconosciuti, di costi a carico del bilancio comunitario e di misure di accoglienza e di integrazione il più possibile omogenee.
Inoltre, andrebbe superata una logica emergenziale nella gestione dell’accoglienza. Un giovane rifiigiato ha dichiarato di aver cambiato ventuno strutture da quando è arrivato in Italia. Tra la retorica della paura e quella dell’emergenza, lo spazio per soluzioni sensate non manca.
Torno al quesito di partenza; quale confronto possibile? Il punto è che la Shoah ci parla del nostro passato. Conoscerlo serve al nostro presente e al nostro futuro. La Shoah è stata prodotta dalla nostra “civile” Europa: come ripeto sempre agli studenti delle scuole che mi invitano a testimoniare, i tedeschi non erano mostri.
Neanche tutte le SS. Erano spesso persone colte. Amavano la musica e le arti e magari addormentavano i propri figli raccontando loro una favola. I mostri non esistono. Esistono gli uomini. E’ diverso.
E che cosa fa oggi la nostra “civile” Europa? Addormenta i figli con qualche favola. Ama la musica e le arti. Ma non s’interroga poi troppo se centinaia di persone muoiono annegate in fuga verso la libertà sperando in un futuro migliore.

La Shoah più che la pietà per le vittime o l’odio per i criminali deve ricordarci quanto il male possa essere “banale” da poter essere confuso con una pratica burocratica, con l’obbedienza ad un ordine – e poco conta che l’ordine sia quello di scaricare in un foro lo ziclon B, l’acido prussico utilizzato nelle camere a gas per assassinare nei lager nazisti centinaia di esseri umani in pochi minuti, o di chiudere in un vagone piombato uomini, donne, bambini, con la sete che faceva perdere la ragione, e io questo l’ho provato, o di respingere una bagnarola affollata di migranti.
Allora la Shoah insegna (anzi, io direi IMPONE) di ricordare, ma soprattutto di fare. Non basta andare in pellegrinaggio ad Auschwitz. E’ necessario informarsi e soprattutto conoscere, e per conoscere bisogna lasciarsi interpellare, senza reprimere un salutare sentimento di vergogna per un sistema che in qualche modo ci appartiene e dal quale non siamo affatto immunizzati. I morti di Lampedusa sono stati ricordati da superstiti e familiari. Lampedusa, l’isola, che da periferia ultima ed estrema è diventata ormai un nuovo centro del mondo.

Educare i giovani, e questo è compito della scuola, al dovere dell’accoglienza ed al rispetto delle minoranze. Mettere al centro la protezione delle persone e non l’ossessione dei confini; fare del soccorso e del salvataggio la priorità delle politiche nazionali ed europee. Ecco, io penso, quello che si potrebbe e dovrebbe fare.

  • Stralci da Il Giorno della memoria: i migranti e i rifugiati respinti oggi come gli ebrei lo furono ieri, di Teresa Simeone, Il Vaglio (27 Gennaio 2016)

“’…l’Europa e il mondo hanno una lunga tradizione d’ignavia nei confronti di rifugiati e migranti. Mostrarono lo stesso comportamento nei confronti dei profughi ebrei nel Novecento dei totalitarismi, durante l’esplosione del male assoluto. Furono costretti a interrogarsi sulla sorte dei tantissimi che, perseguitati in terra tedesca, chiedevano asilo nel resto d’Europa e in America.

Dopo l’Anschluss (l’annessione) dell’Austria da parte della Germania e con l’inasprimento della politica antisemitica già avvenuta tre anni prima con le leggi di Norimberga del 1935, tra il 6 e il 15 luglio del 1938, Franklin Delano Roosevelt convocò, per ciò, una conferenza a Evian, in Francia, per discutere sul flusso massiccio di rifugiati che scappavano dalla Germania nazista e dall’Austria dove centinaia di migliaia di ebrei avevano perso i propri diritti ed erano stati “retrocessi” al rango di apolidi. I delegati di trentadue paesi europei, americani e del Commonwealth si riunirono per prendere delle decisioni sulla questione dei rifugiati che era diventato un problema europeo e mondiale.

Si mostrò simpatia per la loro sorte, ci furono discorsi di solidale partecipazione al loro dramma, ma nessuna decisione fu presa sull’innalzamento delle quote ( già allora…!) di immigrazione; qualcuno, come il delegato australiano, rispose che, poiché non avevano nessun problema razziale, non avevano alcun desiderio di importarne uno!

Degli oltre trenta paesi nessuno accettò ufficialmente di accogliere neppure un profugo: soltanto la Repubblica Dominicana diede il suo assenso in cambio di una generosa somma di denaro.

Anche ieri, come oggi, la disperazione di esseri umani in cerca di una speranza di salvezza era ingabbiata dalle regole burocratiche di politiche immigratorie che si volevano insormontabili per non dover accollarsi da parte delle nazioni “civili” la responsabilità di inserirli nel proprio tessuto sociale. La preoccupazione delle masse di profughi da accogliere e insediare stabilmente si sposava, inoltre, perfettamente con il timore di rompere le relazioni commerciali con la Germania. Non a caso la Conferenza di Evian è stata definita la conferenza della vergogna.

Si incominciò, è vero, a prendere finalmente coscienza delle persecuzioni contro gli ebrei, della brutalità del nazismo e della rigidità antisemita del governo tedesco: diverse furono le proposte anche da parte delle comunità ebraiche ma, alla fine, nulla venne stabilito di diverso nelle politiche a favore dei rifugiati.

L’unico punto su cui tutti i paesi si trovarono sintonizzati fu nel lasciare immutate le quote d’immigrazione senza alcun innalzamento del numero dei profughi da accogliere. Paesi neutrali come la Svizzera, la Spagna, la Turchia adottarono una politica ancora più selettiva così come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti che imposero maggiori restrizioni all’ingresso degli ebrei. Un anno dopo ci fu addirittura il caso raccontato da Gordon Thomas e Max Morgan-Witts nell’opera “Il viaggio dei dannati” della nave S. Louis, partita nel 1939 da Amburgo con 937 profughi, quasi tutti ebrei, in fuga dalle persecuzioni naziste e diretta a Cuba.

Il transatlantico fu respinto a L’Avana, allora con a capo Batista, dagli Stati Uniti, dal Canada e da molti paesi dell’America latina e costretto a rientrare in Europa dove, grazie all’intervento del comandante Schroder, poi annoverato come “Giusto tra le nazioni”, gli sventurati passeggeri furono smistati tra Francia, Gran Bretagna, Belgio e Olanda. Duecentocinquantasette di loro, in seguito alla successiva invasione nazista, verranno poi deportati e uccisi.

È quello che sta succedendo spesso anche sulle coste del Mediterraneo negli anni duemila. Quanti di quegli ebrei si sarebbero salvati se in uno di quei porti li si fosse accolti? Quanti migranti avrebbero cambiato la propria vita se, invece di un muro, avessero trovato un paese accogliente? Pochi, tanti, nessuno?

Questo non potremo mai saperlo, così come non potremo mai sapere se tra di loro ci sarebbe stato il prossimo Fleming, Pasteur o lo scopritore della cura contro il cancro. Perché, quando muore un essere umano, l’intera umanità perde sempre una flebile speranza di eternità.”

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